martedì 28 gennaio 2014

la lista

Ore undici di un martedì opaco di gennaio. Cambio dell'ora. Una prof entra in classe mentre una collega sta rimproverando i ragazzi, visibilmente in subbuglio, perché non hanno saputo gestire e superare i conflitti sorti nell'organizzare un lavoro di gruppo. Molti si lamentano, altri giustificano le proprie posizioni, qualcuno cerca di fare delle proposte. C'è chi non vuole stare con certi compagni, chi è stato escluso da tutti, chi impone, chi subisce. Le ragazze usano argomentazioni per favorire un compromesso, i maschi sono categorici ma perdono di vista l'obiettivo. Non se ne viene fuori. Ad aumentare la tensione c'è il rischio di un brutto voto sul registro. La paura del giudizio forse non nasce sui banchi di scuola, ma di certo trova fertile terreno di coltivazione.
E' la lista, l'elenco delle cose che non ci piacciono del compagno, del collega, del superiore, del vicino, dell'amico. Abbiamo tutti un elenco di difetti su qualsiasi persona che conosciamo anche solo vagamente, che compiliano e aggiorniamo periodicamente, cogliendo della realtà solo le prove che confermano i nostri giudizi. La lista nasce come specchio di noi stessi, del nostro modi di vederci, di amarci o criticarci. Non ricordo quando è iniziata la mia. So bene invece quando ho deciso di smantellarla, rigo per rigo. Sono a buon punto, ma c'è ancora strada da fare.
La prof chiede ai ragazzi di immaginare un foglio diviso in due colonne: una colonna vede elencati i difetti della persona che non vogliono in gruppo, l'altra le qualità, i pregi, le piccole perle di bellezza. Qualche maschio più spavaldo comincia a ridacchiare e sottolinea il fatto che l'elenco dei difetti è di gran lunga maggiore di quello dei pregi.
"Molto bene", afferma la prof, manifestando entusiamo e apprezzamento per quella risposta. "Ora proseguite, immaginate un altro foglio e fate altrettanto con voi stessi. Nel mio foglio c'è sempre una lunga lista di difetti che so attribuire a me stessa, chissà perché mi viene più facile. Tuttavia mi sforzo di allungare quella delle cose che mi piacciono. Così facendo, ho scoperto che anche la lista dei pregi delle altre persone si allunga. Perché i miei occhi sono sempre gli stessi, e se giudico me giudico gli altri, se guardo con amore gli altri, vuol dire che sto guardando con amore me stessa". I ragazzi si fanno curiosi, attenti, creano silenzio.
Allora la prof si rivolge a un ragazzo e poi ad un altro e ad un altro ancora e a ciascuno domanda, gardandolo negli occhi, "Dimmi, cosa ti piace di te?"
Qualcuno dice che non sa, qualcuno non risponde, qualcuno borbotta che ci deve pensare, una ragazza infine dice, "Di me mi piacciono gli occhi".
"E' come dire che di un tramonto ti piace una singola sfumatura dorata, o che di un cielo stellato ti piace solo una singola stella." Tutti sorridono davanti all'evidenza dell'assurdità delle parole della prof. "Eppure tu sei infinitamente più profonda, ricca e sconfinata di un tramonto o di un cielo stellato."
I ragazzi zittiscono, guardano la compagna. Il suo volto di dodicenne arrossisce. Sulla sua lista, per un istante, è apparso un rigo di luce.
Questa conversazione tra una prof e dei ragazzi non è mai esistita.
O forse sì.



lunedì 20 gennaio 2014

mio

Nei giorni scorsi ho comunicato nel blog l'imminente uscita di un nuovo progetto editoriale, realizzato con la collaborazione di un'amica e professionista illustratrice. E nel scrivere il testo, mi ha infastidito una parola, come nota stonata nel rigo di una partitura. La rileggo, e continua a stonare, è intrusa, scorretta: quell'aggettivo mio davanti a sostantivo. Ci sono lingue che hanno inventato parole specifiche per esprimere possesso e appartenza, e lingue invece che ne sono prive.
Lingue, e quindi civiltà, che non hanno sentito il bisogno di possedere. Lingue che solo sanno mettere in relazione declinabile al presente, in reciproco rapporto hic et nunc, ma che non conoscono proprietà privata o possesso duraturo, nei secoli dei secoli.
Mio è unilaterale, separa, delimita, demarca senza soluzione di continuità, mio è e sarà per sempre.
Mio comincia a starmi stretto. Mio mi impedisce il movimento, mi trattiene, mi rallenta. Mio sta diventando estraneo, non lo riconosco, fatico a capirlo.
Nella vita scopro che tutto è incontro, tutto è relazione, tutto è momento presente.
Non si può possedere il presente, il presente si vive, si incontra, si abbraccia, si scioglie, si lascia andare.
Mio non appartiene alla grammatica della vita.
Mio non mi serve.


sabato 4 gennaio 2014

il peso della valigia

In questi giorni sono stata in viaggio in un paese lontano.
Al momento della partenza, la mia valigia era stata preparata tenendo in considerazione la destinazione, la durata del viaggio e le specifiche della compagnia aerea. Informazioni, parametri, previsioni, la vita la costruiamo così.
Poi, una volta in viaggio, si scopre la realtà e si fa verifica: c'è sempre qualcosa che sarebbe servito ma che manca e qualcosa che si è portato via ma che si finisce per non usare.
Spesso, poi, alla fine del viaggio, lo spazio in valigia può essere diminuito o aumentato: a volte può capitare di regalare o abbandonare lungo il cammino qualche capo di vestiario, più spesso siamo presi dallo shopping turistico e così il peso della valigia aumenta.
In questi giorni, ho aperto e chiuso la mia valigia di dieci chili in sette località diverse, e ogni sera mi sono domandata se nella vita so viaggiare allo stesso modo, con poco peso sulle spalle, spazio per accogliere il nuovo giorno per giorno, prontezza nel lasciare andare ciò che è passato, capacità di vivere l'essenziale abbandonando il superfluo.
Ma soprattutto mi sono domandata se sto usando tutto quello che c'è nella mia valigia-anima. Se so usare tutti i miei talenti, se so cercarne di nuovi, quelli nascosti o dimenticati nel fondo, se so fare ordine alla fine di ogni giorno che si fa e si disfa tra le mie mani.
E se so ripartire, risalire, cambiare direzione, seguire il vento che non ha dimora.