mercoledì 24 dicembre 2014

lascia

Se vuoi trovare, lascia.
Se vuoi andare, lascia andare ciò che ti trattiene.
Se vuoi correre, lascia andare ciò che ti frena.
Se vuoi sentirti forte, lascia andare le tue debolezze.
Se vuoi incontrare, lascia andare da te coloro che se ne sono andati.
Se vuoi stare nella pace, lascia andare rabbia e rancori.
Se vuoi gioia, lascia andare la tristezza dentro gli occhi.
Se vuoi ricevere, lascia andare ciò di cui sei colmo.
Se vuoi la certezza del successo, lascia andare i dubbi.
Se vuoi vedere con nuovi occhi, lascia andare i tuoi pensieri più certi.
Se vuoi nuovi equilibri, stacca il piede dal terreno dove hai finora camminato.
Se vuoi essere libero, lascia ogni attaccamento.
Non siamo fatti per la morte, ma per la vita.
Non siamo fatti per il buio, ma per la luce.
E lascia che sia, perché ogni lotta crea un nemico da combattere e una sfida da portare a termine. Lascia che sia, perché tutto scorre e nulla si blocca nella vita. Non puoi fermare la luce, non puoi fermare il fiume, non puoi fermare il mare, non puoi fermare il vento, non puoi fermare il sole, non puoi fermare il cielo, non puoi fermare il battito del cuore.
Lascia che sia e lascia andare.
Buon Natale.

martedì 25 novembre 2014

il colore che voglio essere

Salgo alla montagna e mi accoglie il bianco.
I piedi scivolano sul bianco, la mente incontra le sue porte chiuse.
La fatica dell'ascesa mi prende e mi scopre, scioglie i nodi del cuore e scopre desideri  nascosti e poi dimenticati.
Sulla cima mi coglie la luce, mostra tutto per quello che è. È il momento di mettersi in gioco, di dare tutto, e fino in fondo. Aggancio gli sci e punto in basso. Ora c'è solo il presente che richiede direzione e determinazione.
Alla fine della discesa giunge la leggerezza, e anche questa volta mi dico che avrei potuto viverla prima, arrivare già sciolta, già aperta alla neve e al presente che vive, ma so che è proprio per questo che ho bisogno della montagna, so che la salita è sempre lì ad aspettare che io depositi nel vuoto del suo intorno tutto ciò che è troppo per il mio spazio interiore, tutto ciò che mi riempie e a volte mi toglie il respiro.
In fondo, dopo la discesa, mi accoglie il tramonto, gratuito, immenso, senza un perché.
Voglio e chiedo alla vita di essere amarilla, di essere come la luce che invade la notte, soverchia il buio dei pensieri, della tristezza e della miseria.
Voglio essere amarilla, come la luce che riempie il volto, stende il sorriso, entra dentro e non se ne va.
Voglio essere amarilla, perché è il colore della vita, quando scende dal cielo e abbraccia la terra. È il colore che sento quando amo qualcuno, quando rischio, quando mi lancio, quando mi abbandono, quando rido, quando entro, quando volo.
È il colore di quando siamo vivi.




sabato 1 novembre 2014

attraverso

Ogni giorno la vita mi incontra, mi attende, mi anticipa, mi attraversa.
Prima dell'alba già è lì, saluta i miei passi nel freddo dell'aria che si fa chiara, mentre la luna si volta dall'altra faccia dell'universo, piena di noi.
È il momento del respiro che trova lo spazio, che si prende spazio. Poi, nel giorno, tutto si farà corsa, tutto sarà concitato, i passi si faranno brevi, i pensieri si spezzeranno, la pelle del viso alla sera si sarà stretta attorno a una ruga.
La vita mi viene addosso, mi sorprende e mi confonde.
Io penso di essere sola, e intanto mi scrive qualcuno conosciuto in un'ora di volo un anno fa, mi racconta che sta male ma lotta per liberarsi da una catena e trovare la felicità. Mi dice che ogni giorno è duro, ma sta imparando a viverlo momento per momento, accogliendo qualunque cosa, qualunque cosa, con un sorriso. Mi ringrazia perché ci sono ad ascoltarlo nel mondo. Lui sta tra la Palestina e gli Stati Uniti. La vita sa come trovarti, sa dove cercarti.
Io penso mi manchi una certa persona, e intanto un giovane uomo mi racconta che la sua vita di coppia non funziona. Si sta rassegnando perché non vuole ferire, è buono dentro, lo si vede dagli occhi. Riesco a farlo ridere, riusciamo a ridere insieme. La vita sa metterti accanto qualcuno che ti mette il buon umore. Anche questo è amore.
Io penso di non farcela a tenere il ritmo, il lavoro mi richiede tanta energia e non so nemmeno cosa sarà di me domani. Vivo giorno per giorno, sapendo che tutto è precario, appeso a un filo di seta. Arrabbiarsi in questo momento rappresenta per me un lusso energetico. La vita ti conduce alla pace interiore attraverso la stachezza.
Mi ascolto e mi sento confusa, e intanto incontro un vecchio amico per strada. Scambiamo qualche parola, mi rendo conto che ha bisogno di raccontare. Mi dice che le cose van bene, ma i suoi occhi son più chiusi di un tempo. La parte destra del viso sembra rassegnata o sottomessa. Possiamo raccontare menzogne a noi stessi, ma ne prendiamo nota sul volto, sul corpo. La vita mi sta chiamando ad essere vera, e mi mostra chi sono.
La vita è pronta a farmi sentire il calore del sangue, a donarmi la forza e l'energia del vento, del temporale, e il cuore di un lupo, solo una cosa mi chiede: lasciare andare i giudizi, lasciare andare le paure. Solo così potrò veramente volare, come mi accade spesso nel sonno, capace di attraversare i cieli, si sorvolare il mare.
È bella da togliere il fiato la vita. Ed è innamorata di noi.

mercoledì 17 settembre 2014

a che velocità viaggia la felicità

La vita viaggia alla velocità della luce.
La vita è iniziata con la luce e di luce è fatta.
La vita è per la felicità, la felicità piena, traboccante, profonda.
La felicità viaggia alla velocità della luce.
Tutto ciò che rallenta, non è per la felicità e non proviene dalla luce.
Paura, timori, vanità, rabbia, ansia, non sono per la felicità e rallentano.
Opinioni, giudizi, tradizioni, abitudini, modi di pensare, persone, se diamo loro peso, rallentano, non sono per la felicità e non provengono dalla luce.
Staccarsi da tutto ciò che è peso porta ad avvicinarci alla velocità della luce nei pensieri, nelle decisioni, nelle azioni.
Sogno spesso di volare veloce come un lampo.
O ti illumini, o tutto pesa e si diventa un peso.

mercoledì 6 agosto 2014

Io sono vita

Chi sono? Sono forse la somma dei miei pensieri, delle mie parole, delle mie azioni e correzioni? O sono la somma dei giudizi e opinioni della gente, di chi mi ama o di chi non mi vede? Sono la religione che ho imparato, le lezioni che ho appreso e studiato, la morale, la legge, la cultura, la costituzione? Sono i limiti che mi sono imposta, sono i recinti che ho accettato, sono... cosa?

Sono fuoco che scoppia,
sono vento, energia,
sono foglia che trema,
sono luce e la sua ombra.

Sono acqua che invade,
sono goccia che cade,
sono zampa di cane,
sono strada sulla strada.

Sono notte senza luce
e sono alba di nuovo,
sono battaglia e confusione,
sono caduta e abbandono.

Sono roccia bagnata,
sentiero scosceso,
sono volo di ali,
sono fame nelle mani.

Sono labbra di donna,
sono frutto maturo,
sono sangue sulla faccia
sulla pelle, tra i denti.

Sono mano che fa,
sono testa che pensa,
sono cuore che va,
sono occasione che non torna.

Sono violenta, sono fragile,
sono smarrita e ritrovata,
sono ruvida e dolce,
sono solle e oltre ancora.

Sono voci che parlano,
sono silenzio ascoltato,
sono  grido e pianto,
sono sorriso e canto.

Alzati allora, in piedi adesso e ogni istante,
fino in fondo e fino alla fine,
perché sono viva, perché sono vita.

martedì 15 luglio 2014

guerra a colazione

Ho un amico palestinese, conosciuto tempo fa su un volo verso Istanbul. Forse non è corretto definire amico una persona che hai frequentato per il breve tempo di un volo internazionale, una manciata di ore seduti negli angusti spazi di un aereo non è tra le migliori occasioni per legare con qualcuno, soprattutto per me, che tendo a conoscere le persone più attraverso quello che faccio con loro piuttosto che quello che dicono, eppure con Ali, così lo chiamerò in questo post, subito è scattato qualcosa.
Forse è stato il fascino di una conversazione intelligente, motivata e diretta, forse la franchezza con cui abbiamo toccato certi temi, senza tabù, mezzi termini, incertezze, forse è stato incontrare una persona appartenente a un popolo martoriato, ferito, e per questo fiero e profondo, sta di fatto che ci siamo scambiati i rispettivi indirizzi, e ancora adesso ci teniamo in contatto. E continuiamo a essere diretti, ruvidi, come lo è un pezzo di pane e sale. Ed è questo che mi piace.
Ora, in questo preciso istante, nella striscia di Gaza stanno massacrando civili, violentando vite, sradicando ogni speranza di pace. Mentre accade tutto questo, mentre guardiamo tutto questo nei notiziari televisivi, noi prendiamo il nostro primo caffè della giornata, andiamo al lavoro oppressi e di malumore, ci preoccupiamo di cose futili come il passato o il futuro, studiamo banalità assurde per superare un concorso a quiz, ci lamentiamo perché la pioggia ci rovina le ferie.
La globalizzazione non unisce, la globalizzazione rende indifferenti. Siamo in grado di assimilare tragedie su tragedie senza scomporre per un solo istante le nostre vite, come se tutto ciò stesse accadendo su un altro pianeta, in un'altra galassia.
Ci rubano il lavoro, la casa, la dignità, la libertà, l'educazione, l'intelligenza, il fascino, la bellezza, la salute, il midollo della vita, e noi non reagiamo, non facciamo nulla, ci sta bene così, semplicemente continuiamo a cambiare canale, sogno dopo sogno, dopo sogno e ancora ancora, senza mai svegliarci.
Questo pianeta sta scoppiando, l'uomo è impazzito e non se ne rende conto, devastiamo e avveleniamo ogni cosa e ogni essere con cui entriamo in contatto, completamente anestetizzati, completamente svuotati del più piccolo barlume di intelligenza e sapienza.
Noi, esseri umani, figli e fratelli della stessa umanità, stiamo morendo facendo la guerra contro tutto e contro tutti. Esistono siti web (ad esempio, www.guerrenelmondo.it -- ma non ci scandalizza nemmeno un po' che esista un sito così nel 2014?), che riportano lunghe liste di conflitti attualmente in corso.
Ma tanto, oggi, dopo l'ennesimo TG di guerra, penseremo a cosa mettere in valigia per le imminenti vacanze. Ci sta, il divertimento, la spensieratezza, l'allegria, ci sta. Ma la felicità non può essere un bene di consumo, o ci sarà sempre qualcuno che ne resterà senza.
E se continuiamo a vivere così, le scorte non dureranno per sempre.

venerdì 6 giugno 2014

A.D. 14

A.D. ha quattordici anni, e li porta con slancio.
A.D. è una ragazza che già vede ingiustizie e discriminazioni, e non si volta dall'altra parte. Ha già alzato lo sguardo, allungato l'orizzonte, vede ciò che molti preferiscono ignorare; è una guerriera della luce.
Vede che la donna è ancora schiava, una schiavitù che spesso si sceglie da sola, per paura, ignoranza, insicurezza, abitudine, solitudine, cattivi maestri.
Perché non è facile cambiare i modelli educativi, non è facile cambiare mentalità. Più semplice e sottilmente diabolico è invece cammuffare il vecchio in abiti nuovi, dare alla donna una parvenza di emancipazione, e intanto mantenerla sempre e soltanto un oggetto di desiderio o una brava donna di casa.
A.D. vede le pubblicità, i messaggi che mandano, quelli che stanno dietro i prodotti che apparentemente vengono reclamizzati, e ha capito che la vera merce siamo noi, siamo noi l'oggetto di consumo. Uomini e donne chiusi in stereotipi che si perpetuano incessantemente: l'uomo forte, sicuro, superiore alla donna, lei che al massimo sta accanto al vincente, ma che ha sempre bisogno di un maschio per definirsi. Lei che è sì bellissima, ma di una bellezza finalizzata solo a sedurre, ancora una volta, il leader. Lei che pulisce casa in tacchi alti e smalto, che lotta contro il calcare in cucina, che trionfa vincente sulle macchie di bucato, ma che si dispera per una smagliatura. Sono queste le nostre battaglie?
Lei che non esce di casa se non è perfetta. Noi donne dobbiamo essere perfette, o non siamo niente. L'uomo può essere distratto, un po' pigro, fanfarone, avere pure un po' di pancetta, e fa tanta tenerezza, ma la donna no, la donna deve essere perfetta. E ci credo che non riusciamo a cambiare il mondo, siamo troppo occupate dal parrucchiere, dall'estetista, in palestra, dal chirurgo plastico, dal dietologo, a laccarci le unghie, a combattere la cellulite come se fossimo in guerra...come facciamo ad avere il tempo di amarci come siamo, e mandare tutto il resto là dove dovrebbe stare, nel cassonetto? Perché è spazzatura quella che ci vendono, droga mentale, inganno, sonnifero.

Se mai ci venisse in mente di essere qualcos'altro, di provare a "fare carriera", allora dobbiamo entrare nel campo di gioco degli uomini e giocare con le loro stesse regole. Dobbiamo diventare aggressive, dure, competitive più di loro, rinunciare a figli e famiglia, mutilare la nostra essenza femminile. Ma è una visione ristretta, sciocca, profondamente cieca e ignorante. Sarebbe molto più intelligente cambiare le regole del gioco, visto che ora i giocatori in campo hanno doti e talenti diversi, che possono completarsi, arricchendosi a vicenda secondo una relazine basata sul dono e non sul possedere.
E lo vediamo chiaramente negli sport, dove le squadre e i campionati sono ancora sessualmente divisi, come a dire che non si può giocare tutti insieme. Ed è vero, non ne samo ancora capaci. Non aspettiamoci infatti che l'uomo comprenda, che ci stia accanto, perché l'uomo non vuole una guerriera della luce accanto a sé, non ancora, è anche lui addormentato e ingannato. "Mi sono fatto una ragazza", ho sentito dire da un giovane di forse diciasette anni una sera in pizzeria. Quello che diciamo e come lo diciamo rivela i nostri pensieri, la nostra mentalità, e farsi un altro essere vivente significa considerarlo merce, al pari di farsi una birra, una pizza o il pearcing al naso.
No, voi uomini non potete farvi le donne.

A.D. ha quattordici anni, ed è vento fresco, leggero, veloce, che scuote senza rompere, è una piccola ribelle spirituale. Se non si lascerà ingannare dal giudizio e dalla polemica inutile e sterile, saprà fare la sua rivoluzione.

lunedì 12 maggio 2014

cielo

Stasera stavo per piangere e chiudermi in me stessa,
ma poi mi son detta che sono io che scelgo come finiscono le cose.
Allora sono uscita,
ho arrampicato e dimenticato il pianto.
Ora il cielo è basso e scuro sopra questa città,
e lampi di luce sfiorano la mia testa.
Si è fatto vicino il cielo stasera,
e io sto ascoltando gli Editors.
Ho solo questa vita qui, non voglio avere paura.
Il cielo è basso e tra le nuvole guizza luce
su questa città mezza morta e mezza viva,
già grigia di cenere e di polvere da dimenticare.
Il cielo è basso e mi sfiora il viso con una goccia,
e io ho voglia di correre fino alla fine del mondo,
e oltre, fino a dove tutto nasce,
dove tutto inizia di nuovo.
Ho voglia di correre con questa vita
che è fatta di pezzi belli e pezzi che fan male,
ho voglia di correre in questa vita che preme,
ho voglia di correre fino a quando imparerò a volare.
Ho voglia di correre fino agli occhi di un bambino,
fino alla cima di un albero, fino dove la terra finisce e comincia il blu,
voglio correre fino a sentire le stelle.
Non c'è lavoro qui in Italia, non c'è giustizia,
non c'è pace né verità.
Siamo circondati da cose inutili,
siamo malati, depressi, sfruttati, consumati.
Siamo divisi, separati, impauriti, aggressivi e persi,
vulnerabili e fragili, accecati e violenti.
Ho voglia di correre stasera dentro il cielo
che si è fatto scuro e basso su questa città e su di me.



domenica 11 maggio 2014

tra 0 e 1000

In montagna, la differenza tra due diversi piani si chiama dislivello.
Esso non misura distanza da percorrere, quanto altezza da raggiungere.
Il termine dislivello è forma avversativa di livellare, ovvero mettere sullo stesso piano due punti, oggetti o realtà. A sua volta, il termine livellare deriva da libra, ovvero bilancia.
Il dislivello indica allora un disequilibrio tra due piani colmabile attraverso un bilanciamento sia di altezze che di pesi. Per superare un'altezza infatti è importante anche il peso che ci si porta appresso, il corpo non può che essere trattenuto nei movimenti se qualcosa lo aggrava.
Ci sono poi altri pesi, più invisibili ma più potenti che possono trattenere l'uomo dalla vetta.
Il peso della mente, ad esempio, che è chiamata ad accettare fatica, incertezze, a volte maltempo; a svuotarsi di pigrizia, indecisione, disattenzione; a rimanere nel presente, senza fuggire; che qualche volta non va ascoltata, anche se razionalemnte avrebbe ragione. Che senso ha faticare su un ripido pendio sotto un sole cocente, spingendo sulle pelli tirate sotto gli sci, quando si potrebbe andare sulle piste preconfezionate, come tutto è pre-confezionato e finto ormai?
Ci si può allenare a superare il dislivello: così come si allena il corpo, si può imparare a spostare il limite della nostra mente, il punto in cui comincia fare domande, a lamentarsi, ad avere voglia di fermarsi, ma ci sarà sempre un momento di crisi. Il momento in cui crederemo di non farcela più, dubiteremo delle nostre forze, delle nostre scelte. E' il momento in cui i piatti della bilancia si avvicinano, in cui il peso dell'esistenza va a pari con la voglia di arrivare in cima, di scoprire un orizzonte nuovo e di scoprirsi così nuovi.
Tra zero e mille non c'è solo un'altezza da raggiungere, c'è anche un piatto di bilancia da equilibrare, livelli di coscienza di sé da sollevare. 
La montagna chiama l'uomo ad avere leggero lo zaino così come lo spirito, invita a guardare in alto per trovare bellezza e pace, ma richiede di svuotarsi dell'inutile se si vuole raggiungere i propri desideri di vera gioia. Il dislivello da percorrere richiede una via, un percorso che non si misura in chilometri, ma in tempo, perché dipende dalla pendenza e dal tipo di terreno. Tutto questo prende nome di sviluppo. Ed è proprio quello che accade all'uomo mentre colma il dislivello: si sviluppa, progredisce, evolve.
Non stupisce che l'uomo moderno sia depresso, aggettivo che deriva dal latino de-premo con il significato di "portare a un livello inferiore, abbassare, diminuire".
Finché sete di denaro e di potere, accumulo di beni, abuso e spreco di energie ci terrano schiacciati al livello zero della nostra coscienza, non scopriremo mai tutta la bellezza e la felicità che c'è per noi.
Qualcuno un giorno salì su una croce e lì vi rimase per sempre, in attesa.
Forse è lì che bisogna guardare per alzarci dalla depressione, per raggiungere nuovi piani, forse è lì che ci attende tutta la nostra gioia, tutta la nostra pace.




mercoledì 16 aprile 2014

revolution

"Ogni volta che rispetti chi fa tutto un altro viaggio", così canta un verso de La rivoluzione di Daniele Ronda.
Il movimento immenso della rivoluzione... penso ai corpi celesti,  penso alle scosse politiche e sociali, al terreno emotivo che si muove dentro, penso ai nuovi punti di partenza della vita, subiti o cercati, penso ai pesi che diamo alle idee, agli uomini, a come cambiano nel tempo.
Ogni rivoluzione rovescia piani, sposta equilibri, mette in moto tempi nuovi, fa raggiungere dimensioni di noi stessi prima sconosciute.
A volte accadono piccole, impercettibili rivoluzioni. Sono quelle in cui credo maggiormente, perché la storia mi ha consegnato fino ad ora grandi ideali tramutati in violenza e sopruso, rabbia e macerie invece di un respiro che sboccia.
Tutto mi pare stia in quel semplice sostantivo, nemmeno molto appariscente: rispetto.
La radice latina parla così:  forma intensiva di respicere, significa guardare indietro, riguardare. Rispettare accenna ripetizione, indugio nello sguardo, è occhio che si sofferma ad osservare, che torna indietro, guarda anche dietro, comprende di una realtà anche il suo lato non manifesto, ciò che è apparentemente indecifrabile.
Rispettare chi fa tutto un altro viaggio: basterebbe questo per far terminare pettegolezzi e chiacchere, voci che riecheggiano ciò che occhi non hanno visto, che ripetono a staffetta senza essersi voltate indietro.
Siamo ormai una società monodimensionale: guardiamo la facciata, non guardiamo più dentro, non guardiamo più dietro. Siamo sempre di corsa, non c'è tempo per voltarsi indietro, si deve crescere a costo di schiacciare se lo spazio è saturo.
L'economia piegata al denaro è una morsa che stritola il rispetto, calpesta il diritto, allontana l'uomo dai suoi simili e da se stesso.
A tutti auguro una piccola rivoluzione. Ma fatela piano, fatela dentro.


domenica 13 aprile 2014

jiiwaa

Nepal e Tibet sono due terre vicine solcate dalla catena dell'Himalaya.
L'immenso arco montuoso dell'Himalaya è un'area di circa 2.500 chilometri di lunghezza per 200 chilometri di larghezza occupata da altissime montagne, le più alte che ci siano. Sono terre dove per viverci ci vuole un DNA forgiato in alta quota. Povertà, fatica, resistenza e accettazione del presente fanno il resto.
Tuttavia, nonostante l'asprezza di quei luoghi, nepalese e tibetano sono due lingue dolci, come lo è il sorriso di quella gente. L'Everest, la montagna più alta del mondo, è chiamata Sagarmatha in nepalese e Chomolungma in tibetano.
Gli sherpa sono diventati famosi proprio con la "conquista" dell'Everest, quando nel 1953 uno sherpa e un alpinista neozelandese raggiungono insieme per la prima volta la vetta della montagna più alta del mondo. A giudicare dai racconti e dal numero di decessi che ogni anno purtroppo avvengono, c'è da ritenere che affrontare una vetta himalayana sia quanto di più pericoloso l'uomo possa affrontare sui propri passi. E se ci vuole una buona dose di preparazione tecnica, audacia e mentre fredda, nulla può azzerare completamente la paura che si prova davanti a quei granitici massicci che non hanno bisogno dell'uomo per esistere.
Eppure, in lingua sherpa la parola "paura" non esiste. Esiste jiiwaa, che indica al contempo paura e pericolo. Non si può domandare a uno sherpa "hai paura". Occorre chiedere, affinché sia in grado di comprendere la domanda, se c'è pericolo-paura in una determinata situazione.
Per gli sherpa la paura è associata al pericolo, si manifesta quando c'è pericolo, altrimenti essa semplicemente non può manifestarsi né, quindi, essere espressa.
Quindi, o c'è un reale pericolo, o non c'è motivo di provare paura.
Mi domando cosa potrebbe comprendere uno sherpa delle nostre innumerevoli paure per qualcosa che non c'è: paura di non piacere, paura di sbagliare, paura dell'ignoto, paura del domani...
Se guardo la società a cui appartengo per legame di nascita, provo il ragionevole dubbio che qualcosa deve essersi perso lungo la nostra linea "evolutiva".



giovedì 10 aprile 2014

quello che resta

Ci sono momenti in cui si trabocca. Sono i momenti in cui si piange o si urla, occorre trovare uno sbocco alla piena che si è  formata dentro.
Oggi è uno di quei momenti. Ho incontrato in un solo pomeriggio 42 genitori, parlato con loro, ascoltato schemi mentali, fotografato vanità, paure, insicurezze, smarrimenti e confusione.
Nello stesso pomeriggio, una donna è in ospedale ad attendere la morte. Porta in sé un male che non sappiamo curare. Lascerà una figlia che non è ancora donna e già deve reggere il peso di una perdita. Non so esprimere in grammi il peso del dolore.
Nel frattempo, qualcuno sta viaggiando in Costa Rica, mentre io mi muovo lungo un triangolo fatto di una manciata di chilometri, consapevole che corro per fuggire alla solitudine.
Nello stesso giorno, due alunne mi regalano un disegno con un cuore e una scritta in cui mi dicono che amano la materia che insegno. Sempre nello stesso giorno vengo a sapere che un concorso che ho vinto è praticamente nullo, basta una telefonata di pochi minuti per azzerare l'impegno di un anno e colorare di incertezza il mio domani.
Vorrei andarmene. Lontano, in qualche paradiso terrestre dove ancora esiste e governa la pace. Purtroppo temo sia un'illusione: ovunque il turismo ha piantanto la sua bandiera, nemmeno il più inospitale e solitario dei luoghi è esente dalla presenza beffarda dell'assurdo sistema di vita che l'uomo ha costruito. Persino le montagne più sacre e impervie sono state violate dal consumismo.
La vita la consumiamo e lei  ci consuma: una forma di cannibalismo sottile e perversa.
Cosa resta dei nostri gesti, dei battiti, dei nostri respiri, delle nostre parole, dei nostri desideri, dei nostri pensieri rivolti a chi non è con noi, cosa resta di questo giorno adesso che è sera, cosa resta della fatica, cosa resta dell'entusiasmo, cosa resta della professionalità, cosa resta del sapere, cosa resta del dolore, cosa resta della gioia? Cosa resta?
Dove va a finire tutto, tutta l'energia che siamo? Adesso, in questo momento, qualcuno nasce, qualcuno soffre, qualcuno ride, qualcuno ama, qualcuno violenta, qualcuno sta cercando, qualcuno si sta smarrendo, qualcuno sta guardando il sole che sorge, qualcuno è incollato al televisore, qualcuno gioca, qualcuno sospira, qualcuno corre, qualcuno grida, qualcuno è sotto le bombe, qualcuno sotto le stelle.
Ma alla fine del giorno, cosa resta di questo qualcuno chiamato Uomo?

sabato 5 aprile 2014

il tempo della libellula

Le larve delle libellule mutano generalmente 10-15 volte, subendo ogni volta modificazioni progressive e poco appariscenti; possono vivere in questo stadio fino a cinque anni, e solo dopo questo lungo periodo compiono la metamoforsi che le porterà ad assumere la forma adulta che tutti ben conosciamo. 
Un esemplare adulto di libellula vive in media tre mesi. Cinque anni per spiccare il volo, cinque anni nell'acqua contro solo tre mesi nel cielo.
Ma forse la libellula non lo sa o non conta. 
Non chiederti quanto ci vorrà per realizzare il tuo sogno. Comincia ora.
Dovrai trasformarti più e più volte, ma non contare. Il cielo sa.

domenica 16 marzo 2014

vecchia conoscenza

Pomeriggio inoltrato. In auto un'amica mi confessa di aver provato dispiacere nel constatare che in occasione della presentazione di una sua mostra, alcuni amici da lei invitati personalmente non si erano nemmeno fatti vivi. E sì che oggigiorno la tecnologia ci rende raggiungibili 24 ore su 24 con un semplice movimento di pollice opponibile su touch screen. Come a dire, non hai scuse per non metterti in comunicazione con me e oltre tutto, protetto dietro al tuo schermo, puoi inventare una marea di scuse per non incontrarmi.
Da tempo sono convinta che la qualità delle relazioni umane sia inversamente proporzionale all'uso della tecnologia che adoperiamo nella comunicazione, ma ciò che mi sorprende mentre innesco la prima al semaforo è riconoscere di essere di fronte a una vecchia conoscenza. Sì, perché quella sensazione di disagio e delusione la incontrai anni fa, con l'uscita del mio primo libro. Non mi aspettavo certo che gli amici si tuffassero in libreria ad acquistare una copia dei miei esordi letterari, ma che almeno si facessero sentire solo per dirmi che condividevano la mia gioia sì.
E invece no. Scoprii così che è più facile che un amico condivida con te un momento di sconforto, piuttosto che un momento di successo. Perché nella tristezza ci riconosciamo tutti, nella gioia ancora no. E spesso nelle vicissitudini altrui facciamo sfoggio di vanità, finendo con il dar sfogo alle nostre sperienze negative. Insomma, facciamo a gara per vedere chi è il più meritevole di commiserazione.
E quella vecchia conoscenza, quel disagio, all'epoca mi arrecò amarezza. Il mio pensiero fu che non piacevo veramente a quelle persone che credevo amiche. Vivevo nell'illusione di dover piacere a tutti, o almeno alle persone che piacevano a me.
La vita si è incaricata di correggere il mio errore, riproponendomi più e più volte la medesima situazione fino a quando non ho visto oltre. Sì, la vita ti propone sempre un cambio di prospettiva per fare più ampio il nostro orizzonte, fino a quando il nostro sguardo non abbraccerà tutto. Son convinta che nell'aldilà ci presenteremo nudi, così come siamo entrati in questa terra. Ma per riuscire a farlo, dovremo aver perso l'imbarazzo che ci causano i nostri giudizi.
E stasera ringrazio per tre motivi. Il primo, per aver scoperto che quel pensiero viaggia ovunque, e a tutti chiede un passaggio sulla strada della vita. Ho sollevato così un po' di autogiudizio per non avere sempre pensieri primari; il secondo, per aver riconosciuto  quella vecchia conoscenza e aver deciso di non farla entrare di nuovo nella mia vita; il terzo motivo, per la confidenza dell'amica, segno che si fidava abbastanza di me da mettermi a conoscenza della sua vulnerabilità.
Non è poco. Da qualche parte, là fuori, qualcuno si fida di me.
Anche questa è una svolta, sulla strada della vita.

sabato 15 febbraio 2014

buoni e cattivi: la favola

Dopo un anno di lavoro per comprendere la rotta, tracciare il sentiero, trovare i mezzi e le risorse, esce "La Favola dei Buoni e dei Cattivi", un viaggio di parole e immagini per riscoprire la luce che siamo.
Qui puoi vederne il book trailer realizzato con la collaborazione di Don Andrea Segato.

Dedico questo libro a tutti i desaparecidos della dittatura economica globale, a tutti i caduti di questa guerra di potere, ovvero a tutti coloro che in questo periodo di grandi tenebre politiche, sociali e umane, hanno spento la loro luce interiore.
Non dimenticate chi siete.

martedì 28 gennaio 2014

la lista

Ore undici di un martedì opaco di gennaio. Cambio dell'ora. Una prof entra in classe mentre una collega sta rimproverando i ragazzi, visibilmente in subbuglio, perché non hanno saputo gestire e superare i conflitti sorti nell'organizzare un lavoro di gruppo. Molti si lamentano, altri giustificano le proprie posizioni, qualcuno cerca di fare delle proposte. C'è chi non vuole stare con certi compagni, chi è stato escluso da tutti, chi impone, chi subisce. Le ragazze usano argomentazioni per favorire un compromesso, i maschi sono categorici ma perdono di vista l'obiettivo. Non se ne viene fuori. Ad aumentare la tensione c'è il rischio di un brutto voto sul registro. La paura del giudizio forse non nasce sui banchi di scuola, ma di certo trova fertile terreno di coltivazione.
E' la lista, l'elenco delle cose che non ci piacciono del compagno, del collega, del superiore, del vicino, dell'amico. Abbiamo tutti un elenco di difetti su qualsiasi persona che conosciamo anche solo vagamente, che compiliano e aggiorniamo periodicamente, cogliendo della realtà solo le prove che confermano i nostri giudizi. La lista nasce come specchio di noi stessi, del nostro modi di vederci, di amarci o criticarci. Non ricordo quando è iniziata la mia. So bene invece quando ho deciso di smantellarla, rigo per rigo. Sono a buon punto, ma c'è ancora strada da fare.
La prof chiede ai ragazzi di immaginare un foglio diviso in due colonne: una colonna vede elencati i difetti della persona che non vogliono in gruppo, l'altra le qualità, i pregi, le piccole perle di bellezza. Qualche maschio più spavaldo comincia a ridacchiare e sottolinea il fatto che l'elenco dei difetti è di gran lunga maggiore di quello dei pregi.
"Molto bene", afferma la prof, manifestando entusiamo e apprezzamento per quella risposta. "Ora proseguite, immaginate un altro foglio e fate altrettanto con voi stessi. Nel mio foglio c'è sempre una lunga lista di difetti che so attribuire a me stessa, chissà perché mi viene più facile. Tuttavia mi sforzo di allungare quella delle cose che mi piacciono. Così facendo, ho scoperto che anche la lista dei pregi delle altre persone si allunga. Perché i miei occhi sono sempre gli stessi, e se giudico me giudico gli altri, se guardo con amore gli altri, vuol dire che sto guardando con amore me stessa". I ragazzi si fanno curiosi, attenti, creano silenzio.
Allora la prof si rivolge a un ragazzo e poi ad un altro e ad un altro ancora e a ciascuno domanda, gardandolo negli occhi, "Dimmi, cosa ti piace di te?"
Qualcuno dice che non sa, qualcuno non risponde, qualcuno borbotta che ci deve pensare, una ragazza infine dice, "Di me mi piacciono gli occhi".
"E' come dire che di un tramonto ti piace una singola sfumatura dorata, o che di un cielo stellato ti piace solo una singola stella." Tutti sorridono davanti all'evidenza dell'assurdità delle parole della prof. "Eppure tu sei infinitamente più profonda, ricca e sconfinata di un tramonto o di un cielo stellato."
I ragazzi zittiscono, guardano la compagna. Il suo volto di dodicenne arrossisce. Sulla sua lista, per un istante, è apparso un rigo di luce.
Questa conversazione tra una prof e dei ragazzi non è mai esistita.
O forse sì.



lunedì 20 gennaio 2014

mio

Nei giorni scorsi ho comunicato nel blog l'imminente uscita di un nuovo progetto editoriale, realizzato con la collaborazione di un'amica e professionista illustratrice. E nel scrivere il testo, mi ha infastidito una parola, come nota stonata nel rigo di una partitura. La rileggo, e continua a stonare, è intrusa, scorretta: quell'aggettivo mio davanti a sostantivo. Ci sono lingue che hanno inventato parole specifiche per esprimere possesso e appartenza, e lingue invece che ne sono prive.
Lingue, e quindi civiltà, che non hanno sentito il bisogno di possedere. Lingue che solo sanno mettere in relazione declinabile al presente, in reciproco rapporto hic et nunc, ma che non conoscono proprietà privata o possesso duraturo, nei secoli dei secoli.
Mio è unilaterale, separa, delimita, demarca senza soluzione di continuità, mio è e sarà per sempre.
Mio comincia a starmi stretto. Mio mi impedisce il movimento, mi trattiene, mi rallenta. Mio sta diventando estraneo, non lo riconosco, fatico a capirlo.
Nella vita scopro che tutto è incontro, tutto è relazione, tutto è momento presente.
Non si può possedere il presente, il presente si vive, si incontra, si abbraccia, si scioglie, si lascia andare.
Mio non appartiene alla grammatica della vita.
Mio non mi serve.


sabato 4 gennaio 2014

il peso della valigia

In questi giorni sono stata in viaggio in un paese lontano.
Al momento della partenza, la mia valigia era stata preparata tenendo in considerazione la destinazione, la durata del viaggio e le specifiche della compagnia aerea. Informazioni, parametri, previsioni, la vita la costruiamo così.
Poi, una volta in viaggio, si scopre la realtà e si fa verifica: c'è sempre qualcosa che sarebbe servito ma che manca e qualcosa che si è portato via ma che si finisce per non usare.
Spesso, poi, alla fine del viaggio, lo spazio in valigia può essere diminuito o aumentato: a volte può capitare di regalare o abbandonare lungo il cammino qualche capo di vestiario, più spesso siamo presi dallo shopping turistico e così il peso della valigia aumenta.
In questi giorni, ho aperto e chiuso la mia valigia di dieci chili in sette località diverse, e ogni sera mi sono domandata se nella vita so viaggiare allo stesso modo, con poco peso sulle spalle, spazio per accogliere il nuovo giorno per giorno, prontezza nel lasciare andare ciò che è passato, capacità di vivere l'essenziale abbandonando il superfluo.
Ma soprattutto mi sono domandata se sto usando tutto quello che c'è nella mia valigia-anima. Se so usare tutti i miei talenti, se so cercarne di nuovi, quelli nascosti o dimenticati nel fondo, se so fare ordine alla fine di ogni giorno che si fa e si disfa tra le mie mani.
E se so ripartire, risalire, cambiare direzione, seguire il vento che non ha dimora.