lunedì 17 settembre 2012

im-possibile

Studiando lingue è possibile capire il sistema con cui ogni lingua e cultura organizza il proprio lessico. Attraverso suffissi, prefissi, declinazioni, ogni linguaggio umano compone nuove parole partendo da una forma base. E' come giocare con i mattoncini del lego: montiamo, smontiamo e incastriamo tasselli linguistici continuamente secondo schemi di composizione ben precisi.
Molte lingue, tra cui l'Inglese, costruiscono nuove parole partendo dalla forma verbale, e questo, se ci soffermiamo a rifletterci, è meraviglioso. La vita è movimento e anche il linguaggio va di pari passo, partendo da ciò che esprime azione, il verbo appunto, per descrivere il resto del reale.
Fare, dis-fare, con-facente, nulla-facente, fatto, ante-fatto, è solo un esempio delle infinite possibilità che l'applicazione di queste semplici regole offre alla nostra necessità di comunicare.
Queste leggi sono economiche e funzionali, permetto cioé al cervello di generare un'infinità di vocaboli partendo semplicemente da un lemma o radice. Ma se stiamo un po' attenti, ciò che vale per il lessico, vale anche per la sintassi.
Proviamo infatti oggi a smontare una frase, e magari, così, anche un pregiudizio non molto utile (non lo sono mai in verità) alla nostra felicità:

è impossibile

può diventare, con minimo sforzo:

mi è possibile


Le lettere usate sono le stesse, il loro numero è esattamente uguale, solo combinate in modo diverso. Ma l'effetto dentro di noi può essere molto, molto più salutare.

E visto che lo sforzo linguistico per produrle è lo stesso, sta solo a noi scegliere quale frase preferiamo come compagna della nostra giornata.



martedì 11 settembre 2012

catalizzatore

Premetto che mi intendo poco di chimica e fisica, ma nella mia esperienza ho potuto più volte constatare che le leggi che regolano il funzionamento dell'universo in qualche modo si applicano anche all'uomo, non solo da un punto di vista puramente biologico, ma anche quando ci si sposta dalla fisiologia al campo delle relazioni interpersonali.
Esistono reciprocità, parallelismi, simmetrie tra il nostro funzionamento organico/biologico e il nostro muoverci e relazionarci con tutto ciò che ci circonda. Di fatto siamo un continuum energetico, ovvero siamo tutti interconnessi a diversi livelli, fisico, biologico, psichico ecc., per cui cosa siamo e come ci relazioniamo sul nostro bel pianeta influenza l'intero sistema vivente.
Su tale argomento, sono diversi gli esperimenti che dimostrano come noi possiamo influenzare o modificare ciò che ci sta attorno solo in base al nostro stato d'animo, i nostri pensieri, ecc. Ciò vale con gli altri esseri umani, come con gli animali, le piante, ma più in generale, è altrettanto vero nei confronti di ogni essere vivente (si vedano ad esempio gli studi  sull'acqua condotti da M. Emoto per comprendere il rapporto che esiste tra l'acqua e l'uomo).

Allora, ragionando con la chimica e con la fisica, ho potuto comprendere meglio il tipo di relazione (o reazione) che ho vissuto con una persona che conosco.
Non è propriamente un amico - non ci conosciamo molto bene e non ci frequentiamo regolarmente, in pratica manca l'esperienza dell'amicizia - tuttavia è una persona che esercita in me, in modo inconsapevole, una certa gravità, una certa forza. Ho scambiato inizialmente tale "forza" per attrazione, ovvero mi sentivo attratta da lui, tanto da innamorarmene in pieno abbandono.
Credo che ciò capiti molto spesso, ci sentiamo attratti da qualcuno, scambiando per amore o passione qualcosa di diverso. Infatti tra me e lui sul piano affettivo non ha funzionato, pure continuo ad avvertire un qualche tipo di azione nei miei confronti, azione che lui esercita in modo assolutamente incosciente e anche da una certa lontananza geografica.
Solo analizzando la situazione con un po' di sano quanto faticoso distacco, ho compreso che in realtà questa persona funziona per me come un catalizzatore. 

lunedì 10 settembre 2012

libri illustrati

Vi è mai capitato di entrare in una libreria e di soffermarvi tra gli scaffali dedicati ai libri di fotografia? Le immagini ci catturano, ci trasportano immediatamente in luoghi lontani, ci immergono in sguardi intensi. Sono storie per immagini, pezzi di vita, di relazione tra uomo e terra, insomma parlano di noi.

Poi forse a qualcuno di voi è capitato di andare nel reparto dedicato ai libri per l'infanzia e di cercare un albo illustrato. Da adulti succede quando si diventa genitori o amici di genitori, più raramente, ci capita di farlo per piacere personale. Ma se non avete né figli né nipoti, fa nulla. Fermatevi lo stesso la prossima volta che entrate in libreria per cercare l'ultimo bestseller da riporre sul comodino e prendetevi dieci minuti per sfogliare un libro per bambini.
Negli albi più belli, quelli che sfuggono ancora alla logica commerciale, le parole sono ben dosate, a volte disposte in modo inconsueto attorno alle illustrazioni che riempiono la pagina, strasbordano a volte dai margini e sembrano andarsene a spasso chissà dove.
Mio nipote, che ancora non sa leggere e non conosce la rigidità della coerenza, di un libro guarda le illustrazioni e mi chiede di leggere la storia che già c'è. Poi però mi racconta la "sua storia", nata sulle pagine del medesimo libro. Così di volta in volta mi regala nuove avventure (io invece non posso, io sono l'adulto, da me si pretende coerenza. Devo leggere la storia pari pari, guai a modificare una sola sillaba, o lui mi corregge).

Sono affascinata dalla fotografia come dalle illustrazioni. E dalle parole che entrambi non dicono.

Rivendico allora, come scrittrice, il desiderio di scrivere e illustrare libri per adulti. Rivendico la possibilità, come lettore, di lasciarmi affascinare dalle immagini, da un linguaggio simbolico che vada oltre il vocabolo, oltre il verbale. Voglio ascoltare con gli occhi.

sabato 8 settembre 2012

movimento

Oggi pubblico questa storia per bambini (ma non solo), nata dopo aver fatto un trekking sulla Schiara e scritta pensando a mio nipote Giovanni, la cui energia e desiderio di vivere sono iscritti nel suo movimento, nel suo non conoscere pause. Gio non si volta indietro, non si ferma mai, se non in due occasioni: quando si arrabbia e quando ha paura, ovvero quando non accetta il passato o teme il futuro. Ma superato quel breve istante di indecisione, torna a tuffarsi a capofitto nello scorrere dell'esistenza, nel presente, vivendola a piene mani e pieno cuore. L'illustrazione è di Americo Gobbo, un artista italo-brasiliano con cui ho il piacere di collaborare ogni tanto.



I sassi, si sa, stanno fermi.
A meno che non ci sia qualcosa o qualcuno che li muova, loro non si spostano mai.
Se ne stanno immobili là dove sono per tutto il tempo della loro vita.
E vivono a lungo, molto a lungo.
Sono capaci di esistere per centinaia e centinaia e centinaia di anni.
Sempre fermi. Guai a spostarsi.
Non si fa, non è nelle regole della vita dei sassi.

Ma Klippie era diverso.
Era un sassolino speciale.
Lui DESIDERAVA muoversi…

Klippie viveva alle pendici di una montagna,
insieme ai suoi genitori, ai fratelli, alle zie e zii,
nonni e bisnonni, cugini di terzo e quarto grado…
Una famiglia numerosa, tutta ammassata ai piedi della montagna,
da cui erano scesi tanti, tantissimi anni prima.
Un fulmine aveva colpito proprio la cima e fatto ruzzolare a terra
una gran quantità di massi e rocce: tutta la famiglia di Klippie.

Da lì non si erano mai più mossi.
E per fortuna, perché i sassi, una volta che li sposti,
vuoi per caso, vuoi per intenzione,
difficilmente tornano dov’erano,
per cui c’è il rischio che un sasso che ruzzola
non riesca mai più a rivedere la sua famiglia.

La famiglia di Klippie era molto unita.
Vivevano tutti insieme, immobili e fermi,
da più di settecento anni.
Sopra di loro, c’era la montagna,
rossa al tramonto e scura di notte,
e il cielo, a volte nuvoloso, a volte pieno d luce.
Sotto di loro, prati e arbusti e in fondo
in fondo, giù nella valle, un torrente.
Questo era tutto quello che potevano vedere dalla loro posizione.
Ed era così ogni giorno, da più di settecento anni.
Conducevano una vita tranquilla, senza scosse o ruzzoloni.

mercoledì 5 settembre 2012

la cattedrale 2

(continua dal post: La cattedrale)

E diede la mano a Dominique in segno di presentazione ufficiale. I due si strinsero la mano, poi Dominique scrisse, E come si fa a dimenticarsi delle parole?
Una parola viene dimenticata quando nessuno più la pensa, rispose il vecchio alzando le spalle.
Dominique, E perché le liberi?
Giona, Beh, fa parte del mio programma di salvaguardia delle parole dimenticate. Funziona così: prima costruisco un aquilone, ci scrivo sopra una parola dimenticata e poi lo lascio andare, così se qualcuno lo raccoglierà, vedendo la parola, la pronuncerà e forse riuscirà a ricordarne il significato. Se torna ad essere usata, allora non sarà più una parola dimenticata.
E indicandogli gli scatoloni gli chiese, Vuoi vederne qualcuna?
Dominique fece segno di sì con la testa e si avvicinò a uno scatolone già aperto.
Che ne dici di questa?, chiese il vecchio mostrandogli la parola che aveva appena preso. STUPORE.
Gli occhi del bambino si spalancarono di colpo e il suo viso si illuminò.
Gli piace, pensò il vecchio.
Poi fu Dominique a prendere una parola dallo scatolone. LETIZIA. Tenendola con tutte e due le mani, se l’appoggiò sul volto, chiuse gli occhi e respirò forte.
Anche questa gli piace, notò Giona.
Poi uscirono di colpo le parole BENEDIZIONE, PROTETTO, LODE. Giona vide che Dominique guardava quei vocaboli estasiato. Sembrava che ne conoscesse perfettamente il significato. Eppure erano parole che nessuno pronunciava più da tanto tempo, impossibile che un bambino le potesse conoscere, a meno che...
Il vecchio stette ad osservare il bambino mentre continuava a prendere parole a caso dallo scatolone. Ogni volta sul suo volto si dipingeva un’espressione di meraviglia e gioia inaspettata.
Allora Giona si sedette alla finestra e fece cenno a Dominique di raggiungerlo. Il cielo in quel momento aveva addosso i colori dell’arcobaleno.
Sai che cosa provo ogni volta che vedo un arcobaleno?, chiese il vecchio.
Stupore, disse subito Dominique, come se quella fosse l’unica risposta possibile. E subito si mise le mani davanti alla bocca per la sorpresa. Aveva parlato! Sì, aveva parlato, quella era la sua voce, uscita dritta dritta dalla gola! Era incredibile.
Allora ho ragione!, gridò saltellando dalla gioia Giona. Sì, ho ragione! Tu non sei muto!
Dominique era altrettanto eccitato, ma anche confuso e spaventato. Lui era muto, e quella era la prima volta che riusciva a parlare.
La cosa gli faceva un effetto davvero strano.
Provò ancora, questa volta lentamente, scandendo bene le sillabe. Stu-po-re. Sì, ci era riuscito di nuovo.
Provane un’altra, lo incoraggiò il vecchio.
Gra-gra-gratitudine, disse a voce alta Dominique, ancora stupito.
Sì! Molto bene!, lo incitò Giona.
Lodeprotettobenedizione, disse tutto d’un fiato il bambino.
Più forte, fece Giona.
LODEPROTETTOBENEDIZIONE, gridò Dominique euforico, mettendosi a correre e saltellare per la stanza insieme al vecchio.
Poi di colpo si fermò e con gli occhi ancora sgranati dalla meraviglia guardò il vecchio in cerca di una spiegazione. Lui era sempre stato muto, come era possibile che ora riuscisse a parlare fluidamente, senza alcun impedimento?
Giona allora lo fece sedere per fargli riprendere fiato, gli accarezzò la fronte e gli chiese, Lo sai da dove vengono le parole?
Dominique indicò la porta, come a dire, Da qui, dalla fabbrica.
Giona riprese, Oh, qui si fabbricano le parole che servono per parlare con la testa, ma c’è un luogo, segretissimo e nascosto, dove le parole non vengono fabbricate, ma nascono e vivono per sempre. Sono parole diverse, che solo un orecchio molto attento può riuscire ad ascoltare, perché non sono parole per la mente, ma per lo spirito. E tu le conosci!
Dominique tornò a prendere carta e matita, Tu hai preso queste parole da lì, dal luogo segretissimo?
Giona fece cenno di sì col capo, poi riprese a parlare. Questi scatoloni contengono solo le parole che io ho saputo ascoltare, ma in quel luogo segretissimo e nascosto ce ne sono molte altre. Quasi nessuno pronuncia più queste parole, perché sono tutti troppo presi a fare dell’altro. Così sono pochissimi coloro che ancora riescono ad accedere a quel luogo segretissimo, dove ci sono i pensieri veri e i movimenti per far nascere le parole vive.
Dominique corrugò la fronte e scrisse, Pensieri veri? Movimenti? Cosa vuoi dire?
Giona spiegò, Ci vuole un pensiero vero per far nascere una parola speciale e ci vuole un movimento per farla vivere. È come per l’aquilone, ci vuole una mano per costruirlo, ma non è sufficiente, serve il vento per farlo volare.
Dominique fece un cenno col capo, come a dire, Ho capito.
Giona continuò, Tu non sei muto Dominique, ti mancano solo le parole, perché quelle della fabbrica non vanno bene per esprimere quello che ascolti dentro di te.
Dominique lo guardò confuso.
Non mi credi? Prova a leggere questa allora. Giona scrisse una parola su un pezzo di carta.
Dominique guardò la parola a lungo. Poi la restituì in silenzio al vecchio.
POSSESSO non è una parola che riesci a sentire dentro di te, vero?, chiese Giona, appallottolando il pezzo di carta e buttandolo in un cestino. Dominique fece cenno di no con il capo.
Già, me lo immaginavo, rispose Giona. Ma questa sono sicuro che riesci a pronunciarla... E pescò dallo scatolone un’altra parola.
DONO, disse serenamente Dominique, come se la voce gli fosse uscita da sola, senza nemmeno doverci pensare.
Giona sorrise.
Dominique rimase in silenzio per un poco. Pensava a cose lontane e intanto scarabocchiava con la matita su un foglio. Erano disegni senza capo né coda, segni indecifrabili privi di forma o espressione. Molti bambini disegnano così, e non per imperizia o arte acerba, ma perché il loro sguardo va e viene come un’onda, non ha confini, perciò non sanno mettere i contorni alle cose.
Poi prese un foglio pulito e ci scrisse sopra a lettere grandi, maiuscole, in bell’ordine. La grafia sostituiva così il tono della voce che gli mancava per dare serietà al discorso.
Insegnami la strada, fu la richiesta, scritta, formale, solenne. E non era cosa da poco, perché chiedere la strada è sempre un atto di abbandono e di coraggio insieme. Ammettere lo smarrimento, chiedere aiuto, fidarsi, non è una formula matematica, che torna sempre, ma tuffo nel vuoto, luogo turbolento, senza appigli né peso. Si deve innanzitutto lasciare il certo per l’incerto e già qui è difficile, l’uomo preferisce qualsiasi cosa, persino la sofferenza, all’ignoto. Poi va accettata indicazione, che è atto di fiducia in se stessi e nell’altro, perché se anche la direzione per la meta è certa, spesso dubitiamo di poterla raggiungere.
Ma Dominique sebbene muto, dentro aveva le sue parole, forti e spensierate da bambino, per cui non mise punti di domanda alla sua richiesta. Non aveva dubbi, si fidava.
Giona si stropicciò i capelli con le mani, pensieroso. Poi si mise a rovistare negli scatoloni che erano ancora chiusi. Dominique lo guardava paziente. Il vecchio stava cercando le parole giuste, prendeva dunque con altrettanta serietà il compito affidatogli. Se lo avesse scritto, avrebbe usato lo stampatello, preciso, ordinato, DAMMI TEMPO, È UNA COSA SERIA.
Eccola, disse infine, sollevando la testa e guardando soddisfatto la parola che teneva in mano.
Poi si rivolse a Dominique, La verità, ragazzo, è che il luogo segretissimo e nascosto è diverso per ognuno di noi. Quindi non posso indicarti la strada, perché il mio luogo è unico e vale solo per me. Però posso aiutarti a trovare il tuo.
E a quel punto gli diede la parola che aveva preso dallo scatolone.
Poi disse, Prendi, portala con te, funzionerà come una calamita. Quando sarai vicino al luogo segretissimo e nascosto, lei comincerà a vibrare, perché le parole vive sono attratte dalla sorgente. Allora seguila fino a quando non sarai arrivato.
Dominique prese la parola dalle mani del vecchio e la tenne tra le dita sussurrandone il nome.
Giona lo zittì immediatamente. No, chiamala quando sarai da solo, in un luogo appartato, allora lei ti riconoscerà e ti diventerà amica.
Poi gli diede un pezzo di spago e disse, Tieni questo, potrebbe servirti. E ricorda, quando sarai arrivato, non aver paura, ma ascolta. Se avrai pazienza, andrà tutto bene.
Dominique prese lo spago, poi abbracciò Giona e uscì. Fuori era tornato il sereno. Decise di andare subito a cercare il suo luogo segretissimo e nascosto. Aveva già otto anni e non c’era ancora mai stato! Per prima cosa pensò da dove avrebbe potuto cominciare la ricerca. Il luogo segretissimo e nascosto poteva essere ovunque, gli aveva detto Giona, perché dipendeva da quello che gli piaceva. Dominique pensò ai posti dove gli piaceva andare e per prima cosa andò al parco. Ma la parola non sembrò affatto attratta da quel posto di alberi e giochi. Poi passò davanti al negozio di giocattoli, alla piscina, al reparto dolci del supermercato, ma la parola non vibrò nemmeno per un momento. Il vecchio gli aveva detto che non sarebbe stato facile, e Dominique non si scoraggiò. Sono posti troppo rumorosi, si disse, non riuscirei ad ascoltare nulla, meglio cercare qualcosa di più tranquillo.
Allora andò in una chiesa, pensando che la religione l’avrebbe aiutato, poi in un museo, pensando che l’arte l’avrebbe aiutato, andò infine in una biblioteca, pensando che la cultura l’avrebbe aiutato, ma in nessuno di questi luoghi la parola si mise a vibrare.
Era ormai sera quando Dominique si sedette su una panchina. Non gli erano rimasti molti luoghi in città dove andare a cercare. Chiuse gli occhi e sussurrò la parola che gli aveva dato Giona. Aveva un bel suono. Capì in quell’istante che la città non andava bene, il suo luogo segretissimo non poteva essere là dove lui non riusciva a parlare. Doveva cercare altrove, ma dove?
Si sa che le parole con cui parliamo dentro a noi stessi sono molto più potenti di quelle che pronunciamo a voce alta, esse infatti non si disperdono al vento ma restano nella corteccia del nostro corpo e mettono radici. E infatti Dominique disse a se stesso, risoluto come solo i bambini sanno essere, Andrò verso il tramonto.
E alzatosi, prese a camminare verso il sole.
Camminò a lungo, perché il sole ha il vizio di andare sempre oltre. Ma a Dominique piaceva andare verso tutto quel rosso e quel porpora, gli metteva allegria. Prese così una stradina che si snodava tra le ultime case della città. Una staccionata tracciava i confini con la campagna circostante, e Dominique la superò immergendosi sempre più nei rumori e bisbigli dei prati in estate. Non si ricordava di essere mai stato da quelle parti, ma il sole era lì, dritto davanti a lui, perciò continuò a camminare.
Poi, all’improvviso, sentì che nella tasca dei pantaloni la parola si stava muovendo.
Allora la prese in mano con cautela e la guardò. Sfarfallava come una libellula. Per non perderla, la legò ad una estremità dello spago che gli aveva dato il vecchio Giona, poi aprì la mano e la lasciò volare, tenendola per l’altro capo della corda come fosse un aquilone.
La stradina cominciò a salire tra prati d’erba alta. Su tutto passava un vento, leggero e fresco, spandendo i profumi dell’estate.
Dominique attraversò così un grande prato, poi un boschetto e un piccolo torrente, sempre inseguendo la sua parola. E vide, a un certo punto, nella penombra degli alberi, tronchi che non sembravano semplici tronchi, e rami che non sembravano semplici rami. Avevano una forma strana, come se qualcuno li avesse piantati in ordine per formare colonne. Gli alberi così disposti andavano a formare navate e si chiudevano in archi a sesto acuto che si stagliavano in cielo.
Incuriosito, Dominique si avvicinò e guardò con più attenzione. Davanti a lui si ergeva una cattedrale, e non fatta di assi di legno e mattoni, ma di alberi vivi, coi rami coperti di foglie e la linfa nelle radici, lastricata d’erba invece di marmo e con il cielo a fare da volta affrescata. Era uno spettacolo straordinario.
Non aveva dubbi, era arrivato al suo luogo segretissimo e nascosto. Ed era davvero un gran bel luogo, notò compiaciuto. Nessun architetto avrebbe mai potuto costruire qualcosa di altrettanto bello, solenne e accogliente.
Camminando tra le colonne d’albero, sotto l’arco della luna che cominciava ad affiorare, Dominique ammirava stupito quella costruzione naturale e ascoltava il vento che suonava una musica senza strumenti, fatta di carezze e bisbigli, sussurrata in punta di labbra alle foglie. Si sentì protetto e al sicuro.
Ad un certo punto si accorse che al centro della navata centrale c’era un tronco scavato a sedia, opera di chissà quale mano. Era consumato dai tarli, come se fosse rimasto lì a lungo, sotto qualsiasi tempo e qualsiasi sole. Sembrava il trono per un re semplice.
Dominique si avvicinò e notò con sorpresa che sul trono c’era un biglietto con su scritto “Siediti”. Proprio in quell’istante, la parola che aveva tenuto legata fino a quel momento, si avvicinò al trono ed esplose in un piccolo fiocco di luce. Dominique era molto stupito. Come poteva essere che quel trono fosse lì per lui? Si guardò attorno, per vedere se c’era qualcuno, ma il luogo era deserto. Giona gli aveva detto che il luogo segretissimo e nascosto è unico per ogni persona e lui non aveva dubbi, quello era il suo. Allora, facendo un bel respiro carico di desideri, si sedette sul tronco tagliato a trono. Sapeva di resina e di parole belle, quelle che lui stava cercando da sempre.
Resto lì seduto ad ascoltare, come gli aveva detto il vecchio Giona, familiarizzando con i rumori di quel luogo fino a quando non cominciò a sentirne i pensieri. Stavano nascosti tra le foglie e sotto le radici degli alberi e bisbigliavano, come fanno i bambini quando confidano segreti.
Il vento cominciò a sollevarli verso l’alto, oltre la volta della cattedrale. Li faceva girare intorno e poi ricadere giù, a volte veloce a volte piano. Creava i movimenti, come aveva detto Giona, per dar vita alle parole.
Dominique si domandò quanto tempo ci sarebbe voluto. Chissà se per nascere le parole erano come i girini che spuntavano in una sera o se impiegavano lo stesso tempo dei gatti o dei bambini. L’idea di aspettare così tanto gli fece venire il solletico. Aveva un gran voglia di rincorrere i pensieri invece di star fermo lì seduto, ma ricordandosi della parole del vecchio, attese paziente che le parole nascessero.
Lì non era come in fabbrica, dove ogni giorno si costruivano parole da usare e consumare in fretta. Le parole segrete e nascoste erano grandi, eterne, per cui ci voleva più tempo perché nascessero. Servivano pensieri forti come le querce, e tanto, tanto vento per sollevarli e muoverli.
Dominique attese a lungo, fino a quando l’estate se ne andò, cielo si fece pallido e i rami si spogliarono lasciando cadere a terra le foglie. Allora il vento sollevò i pensieri molto in alto, li addensò in nubi e tutto si fece freddo e silenzioso.
Poi, piano piano, dal cielo cominciarono a cadere piccoli fiocchi bianchi. Erano le parole bambine.
Dominique aprì le mani per accoglierle. Presto tutto fu bianco.
Quel giorno Dominique cantò con tutta la sua voce il suo grazie. Quel giorno era Natale.

la cattedrale

Le parole che ci diciamo dentro, quelle che ci sussurriamo di continuo, anche quando non ne siamo consapevoli, costruiscono, scavano, riempiono, svuotano il nostro paesaggio interiore. Possiamo, con le parole perderci in labirinti di sofferenza, lanciarci nel vuoto dell'ignoto con il sorriso in mano, erigere roccaforti di pregiudizi, costruire ponti di gioia.
Questo racconto, tratto dal mio libro "Sette Passi", nasce dopo essere stata, quasi per caso, in Val di Sella, dove in un luogo quasi nascosto natura e arte si compenetrano dando vita a un dialogo silenzioso quanto rasserenante.
 
LA CATTEDRALE
Questa storia comincia un pomeriggio d’agosto, durante uno di quei forti temporali estivi in cui pare che il cielo crolli di colpo trascinando a terra metà delle fondamenta del paradiso. Allora onde di polvere e foglie vengono sollevate da terra dal vento e tutto intorno si fa buio grosso.
Niente di strano, un temporale è accidente abbastanza comune in estate, e se spaventa i più sensibili di cuore con la sua prepotenza, è pur vero che si esaurisce presto e tutto torna come prima, ma più limpido, con una luce che pulisce gli occhi.
Ma andiamo con ordine.
C’era in paese una fabbrica molto importante, la fabbrica delle parole, dove ogni giorno si producevano vocaboli come ar-chi-tet-to, mar-ghe-ri-ta, sa-la-man-dra, be-ne-stan-te, ca-pri-cio-so, ri-fran-gen-te, sa-la-man-dra, com-mis-sa-rio e così via. Centinaia di migliaia di parole e modi di dire per stupire, conquistare, affascinare, far ridere o piangere, costruire consensi, governare società, inventare verità, insomma dare forma a quel caos che è la realtà, che altrimenti non si saprebbe come controllarla. L’umanità intera stava vivendo nell’era della comunicazione e mai come allora si consumavano così tanti vocaboli ogni giorno. Un flusso costante di parole correva veloce per ogni angolo del mondo, che era diventato un enorme mercato di parole. C’era chi si arricchiva vendendo segni, significati e, sopratutto, traduzioni e interpretazioni.
In fabbrica si lavorava giorno e notte, perché le parole servivano sempre, che fosse bello o brutto tempo, caldo o freddo, domenica mattina o venerdì sera, e pure di notte, per poter parlare nei sogni e svegliarsi dagli incubi.
Nella fabbrica c’erano vari reparti, ciascuno specializzato nel vocabolario da usare in un determinato contesto. Per esempio c’era il reparto per la pesca sportiva, quello per i gusti di gelato, quello per la medicina, quello per le democrazie, quello per le guerre e quello per la pace. Alcuni reparti erano piccoli, perché c’era poco da dire, come il reparto per le parole dei bimbi di meno di un anno, lì c’era solo qualche vocale traballante sparpagliata in un mare di gorgoglii informi, mentre altri erano molto grandi e indaffaratissimi, come il reparto della politica, per esempio, o quelli dello spettacolo e della tecnologia. C’era anche il reparto import-export, dove si confezionavano le parole straniere per parlare in altre lingue, e il reparto della parole d’antiquariato, cioè quelle fuori moda o in disuso, come torneamento, vossignoria, soprasberga, donzelletta.
Quel pomeriggio, dunque, un violento temporale si era abbattuto sul paese, e la gente, presa di soprassalto, si era rifugiata dove poteva, chi sotto i ponti, chi negli uffici postali, chi nei bar, un caffè macchiato caldo e non ha per caso un asciugamano da darmi che sono tutto fradicio, ma certo, tenga, come lo voleva il caffè, macchiato ha detto? Sì, e caldo, grazie, che tempaccio là fuori, eh sì, non me ne parli, un muro d’acqua.
Quelli che avevano finito il turno in fabbrica erano rimasti all’ingresso ad aspettare che passasse la bufera, neanche i lupi sarebbero usciti dalla tana con un tempo come quello, e intanto si scambiavano quattro parole, letteralmente parlando, proprio come con le figurine, questa ce l’ho, anche questa, questa mi manca, te la dò in cambio di due parole di fantascienza, e così via.
C’era anche un bambino che aspettava che suo padre finisse di lavorare per tornare a casa. Era agosto, le scuole erano chiuse, i nonni in vacanza, la babysitter pure, come si fa? E così Dominique, questo il nome del bimbo, passava un giorno in ufficio con il papà e uno con la mamma, e principalmente si annoiava sia da una parte che dall’altra, perché nessuno gli dava retta un granché, fermi com’erano dietro le loro scrivanie. Solo che il temporale gli faceva paura, ma di quelle buie, da scappare via senza voltarsi più indietro, perciò, al terzo o quarto rombo di tuono, Dominique si mise a correre per i corridoi in cerca di un posticino sicuro dove nascondersi. Passando di porta in porta, leggeva i nomi dei vari reparti. Scienze diplomatiche internazionali, no, non andava bene, Neuropsichiatria infantile, nemmeno, Vulcanologia applicata... Non ce n’era uno che lo rassicurasse, qualcosa che ricordasse vagamente la sensazione del rifugio. Chi mai poteva sentirsi sicuro tra vulcani e terremoti? Alla fine però trovò una porta su cui non c’era scritto niente. Senza pensarci su due volte, entrò.
Si ritrovò in una stanza doveva essere uno vecchio magazzino abbandonato. Dominique cominciò a guardarsi intorno, passando tra scaffali ormai vuoti, quando all’improvviso vide, seduto alla finestra, un vecchietto che lanciava... un aquilone.
Se in quel momento qualcun altro fosse stato presente nella stanza, di certo non avrebbe saputo dire chi dei due fosse più sorpreso, se il vecchio scoperto a fare giochi da bambini, o il bambino scoperto a stare in un luogo dove non avrebbe dovuto essere.
Fu comunque il vecchio a parlare per primo.
Ciao come ti chiami?, chiese scendendo dalla finestra e rimettendo in ordine l’aquilone, ma Dominique, invece di rispondere, si nascose dietro uno scaffale.
Spaventato dal temporale?, continuò il vecchio, per nulla stupito della reazione del bambino. Non ti preoccupare, non durerà ancora a lungo. Vieni, siediti, non aver paura.
Dominique si vide offrire una sedia e un bicchiere di latte. Si guardò intorno. C’era un letto in un angolo e una poltrona con una pila di libri sopra, una cassapanca e diversi scatoloni sparsi qua e là, per lo più ancora chiusi. Dunque quello non era solo un vecchio magazzino abbandonato, ma anche l’abitazione di quel signore. Che fosse il custode? Non aveva mai saputo che la fabbrica ne avesse uno.
Ti piacciono gli aquiloni?, domandò il vecchio.
Dominique non rispose. Silenzio. Nemmeno mezza parola.
Il vecchio sospirò. Gli sarebbe piaciuto un po’ di conversazione, non veniva a trovarlo molta gente là dentro, tuttavia non insistette. L’amicizia è una una faccenda complessa, meglio se parte lenta, senza fretta.
Sul tavolo c’erano dei fogli e delle matite. Dominique ne prese uno e vi scrisse sopra qualcosa, poi lo diede al vecchio.
Il foglio diceva, MI CHIAMO DOMINIQUE, SONO MUTO.
Il vecchio ne fu sorpreso, non se lo aspettava. Nell’era della comunicazione, all’interno della fabbrica delle parole, essere muto era davvero un controsenso straordinario. Rimase in silenzio per un poco a osservare le parole che il bambino aveva scritto sulla carta. Erano in azzurro e sul bianco sembravano righe di cielo sereno sopra le nuvole. Allora prese a sua volta una matita e scrisse sul foglio BENVENUTO DOMINIQUE, IO SONO GIONA, e lo diede al bambino.
Dominique sorrise. Sul foglio c’era un sole. Il vecchio aveva scritto le parole in cerchio con il giallo.
La conversazione andò più o meno avanti così, a colpi di matite colorate su fogli di carta.
Dominique, Fai volare gli aquiloni?
Giona, Non esattamente.
Dominique, E cosa allora?
Giona, Li libero.
Dominique, E perché?
Pausa.
Giona, Giuri di non dirlo a nessuno?
Dominique, Giuro.
Giona, Sono un contrabbandiere.
Dominique, sgranò gli occhi. Un contrabbandiere di aquiloni?
Giona, No, di parole.
Dominique a quel punto fu particolarmente sorpreso. Stette a pensare un poco, perplesso, poi scrisse, Che tipo di parole?
Giona, Parole dimenticate.
Dominique, Come sarebbe dimenticate?
Giona a quel punto abbandonò carta e matita e iniziò a parlare, Questo che vedi è il reparto delle parole dimenticate, l’ho inventato io stesso. 

(continua nel post: CATTEDRALE 2)

mercy

Sempre sul concetto di vulnerabilità e sulla necessità di essere aperti verso il nuovo imprevisto, spesso non desiderato, ho scritto questa breve storia. Mercy, misericordia, è ciò che ci fa superare i momenti difficili, ritrovare leggerezza di passo, scoprire nuovi orizzonti.
 
IL VOLO

Cris non riusciva più a volare.

Un giorno tanta pioggia e lampi e tuoni erano caduti sulla terra
e dentro il cuore di Cris
un'ala si era spezzata sotto il peso della paura.

A terra non poteva andare.
Aveva pensieri troppo leggeri per riuscire a camminare.
Così viveva tra i rami degli alberi.
senza correre né spiccare il volo.

Qualche volta l'ala spezzata gli faceva male.
Succedeva quando era brutto tempo.
Allora Cris chiudeva gli occhi
e cominciava a sognare.
Sognava il sole e le nuvole bianche,
profumo di briciole ed erba di notte.

Un giorno che guardava il mondo dal suo ramo,
a metà strada tra cielo e terra,
vide Mercy, che cercava di arrampicarsi sugli alberi.

Mercy provava e cadeva,
riprovava e cadeva, e rideva e piangeva,
perché imparare è divertente ma fa anche un po' male.
Qualcosa va perso e altro va trovato.

Com'è vivere su in cielo?, chiese Mercy a Cris,
che la guardava incuriosito.
Come stare in un respiro, rispose Cris.

Com'è vivere sulla terra?, chiese allora Cris.
Come stare su una pancia, rispose Mercy.

Rimasero a guardarsi per un po'
Cris a testa in giù, Mercy a testa in su.

E fa male?, chiese Cris.
Qualche volta sì, ammise Mercy.
Quando hai paura, allora fa male.

Poi Mercy si arrampicò su un ramo,
e così facendo delle foglie caddero a terra.
Mercy le guardò e disse,
Il respiro sta nella pancia.

Si è felici laggiù, sulla pancia?, chiese Cris.
La felicità è come un aquilone, rispose Mercy.
Con esso catturi un soffio di vento e per un attimo voli.

Cris mosse l'ala buona.
Si ricordava com'era volare.
Sì, forse si poteva essere felici sulla pancia, per davvero.

Mi piacerebbe respirare sulla pancia, disse Cris allora.
Se vuoi vengo con te, rispose Mercy.
Davvero?, chiese Cris.
Promesso. Rispose Mercy.
Che cos'è una promessa?, chiese a quel punto Cris,
a cui l'ala spezzata faceva ora un po' male.

Una promessa è come quando due torrenti si incontrano e si separano.
Poi, al momento buono, i due torrenti si uniscono di nuovo e si mescolano in mare.
Allora la promessa è compiuta.

Sembra una cosa molto grande, disse Cris che pensava all'oceano.
Sì, davvero, rispose Mercy. Ma è anche molto semplice, aggiunse.
Con un balzo fu a terra e allungò la mano verso Cris.

Il primo passo è come un tuffo, gli disse.
Il rumore delle onde che si infrangono sulla terra fa un po' paura,
ma poi, dentro il mare, tutto si rimescola e scorre.
L'acqua è come il respiro nella pancia, come il vento.

Cris fece un salto e i piedi toccarono l'erba
per la prima volta.

Cris avvicinò il volto alla terra e disse:
Sento il mare.

Che fa? Chiese Mercy.
Respira, rispose Cris.

Andiamo a cercare un aquilone, disse Mercy.

martedì 4 settembre 2012

vulnerabilità

Le parole non sono semplici segni linguistici, contenuti di significato. Le parole a volte sono indici puntati su una realtà, compassi conficcati in un punto ben definito della nostra esperienza, mattoni della nostra struttura mentale. Ultimamente sto sperimentando sulla mia pelle alcune di queste parole e ho cercato di metterle in ordine, guardarle, capirle più a fondo.

Fragile. Fragile è ciò che può essere rotto, infranto, spezzato. Implica quindi la qualità intrinseca di un oggetto, di perdere la sua struttura, la sua forma a seguito di un urto, una caduta, un colpo subito. Non sempre, una volta rotto, l'oggeto può essere aggiustato.

Strong. Forte è ciò che è robusto, fermo, saldo. Sembra, apparentemente, il contrario di fragile. Ma anche ciò che è dotato di forza può rompersi. Spesso infatti ciò che è robusto, ma rigido. Non esiste nulla che non possa rompersi se sottoposto a forze e sollecitazione adeguate. Spesso ci sentiamo fragili per diversi motivi, e cerchiamo di combattere questa sensazione, neutralizzarla con quello che crediamo essere il suo opposto. Cerchiamo allora di essere forti, ma la fragilità resta, solo diventa più latente, nascosta.

Vulnerability. Vulnerabilità indica la possibilità di poter essere ferito fisicamente, emotivamente, o psicologicamente. Indica potenzialità, non certezza. E' un'accezione diversa dalla fragilità. Ciò che è vulnerabile può essere ferito, ma non infranto. Ciò che può rompersi va protetto, coperto, richiede un intervento preventivo, invece ciò che può essere ferito ha bisogno piuttosto di una cura, un rimedio a posteriori. Per me questa è una differenza fondamentale. Come afferma B. Brown, essere vulnerabili è segno di coraggio e compassione. Significa saper guardare alla nostra imperfezione con sorriso e accettazione. Accettare la nostra natura ci permette di superare le nostre paure, di abbandonare le nostre protezioni emotive e psicologiche per vivere in modo più vero e autentico e ci permette di essere più empatici nei confronti degli altri. Se tutti noi facessimo un passo per abbattere il muro che ha forza abbiamo costruito intorno a noi per paura che qualcuno possa vedere la nostra fragilità, potremmo vivere con maggiore serenità la realtà: siamo tutti vulnerabili.

Resilience. Resilienza è una parola poco presente nel nostro vocabolario comune. Ma come dicevo all'inizio di questo post, le parole possono dare forma alla nostra esperienza, quindi non usare mai, o raramente, certi vocaboli può avere degli effetti di un certo tipo sulla nostra vita. Resilienza è un termine che, a seconda dei contesti, può assumere diverse sfumature, fondamentalmente indica la capacità di un materiale o di un organismo (incluso l'essere umano) di resistere a urti senza spezzarsi, di ripristinare la propria condizione di equilibrio a seguito di un intervento esterno che ne ha minacciato la stabilità. Indica flessibilità, adattamento attivo. 

Essere fragili è un'illusione, ci costringe a diventare forti, protettivi, e quindi rigidi, poco flessibili. Si può invece accettare di essere vulnerabili e imparare a essere resilienti, morbidi e rilassati.
(a.t.)

lunedì 3 settembre 2012

scrivere...

Scrivere per me è fare archeologia. Sto sui tasti, scavo in punta di dita per estrarre qualcosa che già c'è. A mano a mano che procedo, ascolto, occorre eliminare ciò che non appartiene, per non deviare, disperdere. Alle parole infatti non serve abbondanza, ma rispetto al significato che portano.
La parola è alimento. Un cibo che ha sostanza, sazia con poco. Il resto è illusione di nutrimento.
Il morbido, il raffinato, scivola senza fatica, invece il duro, il secco fa suono sotto i denti, richiede masticazione e tempo per meditarci sopra. Per questo scrivo scarno, scrivo stretto.

Questo blog gira intorno alla scrittura, all'esperienza, alla realtà. Un viaggio, o un vagabondaggio, lungo quel che scorre in questo strano gioco che si chiama vita. Racconti, pezzi di storie vissute fuori e dentro la pelle. Perchè in fondo, non esistono confini, non esistono misure.