(continua dal post: La cattedrale)
E
diede la mano a Dominique in segno di presentazione ufficiale. I due
si strinsero la mano, poi Dominique scrisse, E come si fa a
dimenticarsi delle parole?
Una
parola viene dimenticata quando nessuno più la pensa, rispose il
vecchio alzando le spalle.
Dominique,
E perché le liberi?
Giona,
Beh, fa parte del mio programma di salvaguardia delle parole
dimenticate. Funziona così: prima costruisco un aquilone, ci scrivo
sopra una parola dimenticata e poi lo lascio andare, così se
qualcuno lo raccoglierà, vedendo la parola, la pronuncerà e forse
riuscirà a ricordarne il significato. Se torna ad essere usata,
allora non sarà più una parola dimenticata.
E
indicandogli gli scatoloni gli chiese, Vuoi vederne qualcuna?
Dominique
fece segno di sì con la testa e si avvicinò a uno scatolone già
aperto.
Che
ne dici di questa?, chiese il vecchio mostrandogli la parola che
aveva appena preso. STUPORE.
Gli
occhi del bambino si spalancarono di colpo e il suo viso si illuminò.
Gli
piace, pensò il vecchio.
Poi
fu Dominique a prendere una parola dallo scatolone. LETIZIA.
Tenendola con tutte e due le mani, se l’appoggiò sul volto, chiuse
gli occhi e respirò forte.
Anche
questa gli piace, notò Giona.
Poi
uscirono di colpo le parole BENEDIZIONE, PROTETTO, LODE. Giona vide
che Dominique guardava quei vocaboli estasiato. Sembrava che ne
conoscesse perfettamente il significato. Eppure erano parole che
nessuno pronunciava più da tanto tempo, impossibile che un bambino
le potesse conoscere, a meno che...
Il
vecchio stette ad osservare il bambino mentre continuava a prendere
parole a caso dallo scatolone. Ogni volta sul suo volto si dipingeva
un’espressione di meraviglia e gioia inaspettata.
Allora
Giona si sedette alla finestra e fece cenno a Dominique di
raggiungerlo. Il cielo in quel momento aveva addosso i colori
dell’arcobaleno.
Sai
che cosa provo ogni volta che vedo un arcobaleno?, chiese il vecchio.
Stupore,
disse subito Dominique, come se quella fosse l’unica risposta
possibile. E subito si mise le mani davanti alla bocca per la
sorpresa. Aveva parlato! Sì, aveva parlato, quella era la sua voce,
uscita dritta dritta dalla gola! Era incredibile.
Allora
ho ragione!, gridò saltellando dalla gioia Giona. Sì, ho ragione!
Tu non sei muto!
Dominique
era altrettanto eccitato, ma anche confuso e spaventato. Lui era
muto, e quella era la prima volta che riusciva a parlare.
La
cosa gli faceva un effetto davvero strano.
Provò
ancora, questa volta lentamente, scandendo bene le sillabe.
Stu-po-re. Sì, ci era riuscito di nuovo.
Provane
un’altra, lo incoraggiò il vecchio.
Gra-gra-gratitudine,
disse a voce alta Dominique, ancora stupito.
Sì!
Molto bene!, lo incitò Giona.
Lodeprotettobenedizione,
disse tutto d’un fiato il bambino.
Più
forte, fece Giona.
LODEPROTETTOBENEDIZIONE,
gridò Dominique euforico, mettendosi a correre e saltellare per la
stanza insieme al vecchio.
Poi
di colpo si fermò e con gli occhi ancora sgranati dalla meraviglia
guardò il vecchio in cerca di una spiegazione. Lui era sempre stato
muto, come era possibile che ora riuscisse a parlare fluidamente,
senza alcun impedimento?
Giona
allora lo fece sedere per fargli riprendere fiato, gli accarezzò la
fronte e gli chiese, Lo sai da dove vengono le parole?
Dominique
indicò la porta, come a dire, Da qui, dalla fabbrica.
Giona
riprese, Oh, qui si fabbricano le parole che servono per parlare con
la testa, ma c’è un luogo, segretissimo e nascosto, dove le parole
non vengono fabbricate, ma nascono e vivono per sempre. Sono parole
diverse, che solo un orecchio molto attento può riuscire ad
ascoltare, perché non sono parole per la mente, ma per lo spirito. E
tu le conosci!
Dominique
tornò a prendere carta e matita, Tu hai preso queste parole da lì,
dal luogo segretissimo?
Giona
fece cenno di sì col capo, poi riprese a parlare. Questi scatoloni
contengono solo le parole che io ho saputo ascoltare, ma in quel
luogo segretissimo e nascosto ce ne sono molte altre. Quasi nessuno
pronuncia più queste parole, perché sono tutti troppo presi a fare
dell’altro. Così sono pochissimi coloro che ancora riescono ad
accedere a quel luogo segretissimo, dove ci sono i pensieri veri e i
movimenti per far nascere le parole vive.
Dominique
corrugò la fronte e scrisse, Pensieri veri? Movimenti? Cosa vuoi
dire?
Giona
spiegò, Ci vuole un pensiero vero per far nascere una parola
speciale e ci vuole un movimento per farla vivere. È come per
l’aquilone, ci vuole una mano per costruirlo, ma non è
sufficiente, serve il vento per farlo volare.
Dominique
fece un cenno col capo, come a dire, Ho capito.
Giona
continuò, Tu non sei muto Dominique, ti mancano solo le parole,
perché quelle della fabbrica non vanno bene per esprimere quello che
ascolti dentro di te.
Dominique
lo guardò confuso.
Non
mi credi? Prova a leggere questa allora. Giona scrisse una parola su
un pezzo di carta.
Dominique
guardò la parola a lungo. Poi la restituì in silenzio al vecchio.
POSSESSO
non è una parola che riesci a sentire dentro di te, vero?, chiese
Giona, appallottolando il pezzo di carta e buttandolo in un cestino.
Dominique fece cenno di no con il capo.
Già,
me lo immaginavo, rispose Giona. Ma questa sono sicuro che riesci a
pronunciarla... E pescò dallo scatolone un’altra parola.
DONO,
disse serenamente Dominique, come se la voce gli fosse uscita da
sola, senza nemmeno doverci pensare.
Giona
sorrise.
Dominique
rimase in silenzio per un poco. Pensava a cose lontane e intanto
scarabocchiava con la matita su un foglio. Erano disegni senza capo
né coda, segni indecifrabili privi di forma o espressione. Molti
bambini disegnano così, e non per imperizia o arte acerba, ma perché
il loro sguardo va e viene come un’onda, non ha confini, perciò
non sanno mettere i contorni alle cose.
Poi
prese un foglio pulito e ci scrisse sopra a lettere grandi,
maiuscole, in bell’ordine. La grafia sostituiva così il tono della
voce che gli mancava per dare serietà al discorso.
Insegnami
la strada, fu la richiesta, scritta, formale, solenne. E non era cosa
da poco, perché chiedere la strada è sempre un atto di abbandono e
di coraggio insieme. Ammettere lo smarrimento, chiedere aiuto,
fidarsi, non è una formula matematica, che torna sempre, ma tuffo
nel vuoto, luogo turbolento, senza appigli né peso. Si deve
innanzitutto lasciare il certo per l’incerto e già qui è
difficile, l’uomo preferisce qualsiasi cosa, persino la sofferenza,
all’ignoto. Poi va accettata indicazione, che è atto di fiducia in
se stessi e nell’altro, perché se anche la direzione per la meta è
certa, spesso dubitiamo di poterla raggiungere.
Ma
Dominique sebbene muto, dentro aveva le sue parole, forti e
spensierate da bambino, per cui non mise punti di domanda alla sua
richiesta. Non aveva dubbi, si fidava.
Giona
si stropicciò i capelli con le mani, pensieroso. Poi si mise a
rovistare negli scatoloni che erano ancora chiusi. Dominique lo
guardava paziente. Il vecchio stava cercando le parole giuste,
prendeva dunque con altrettanta serietà il compito affidatogli. Se
lo avesse scritto, avrebbe usato lo stampatello, preciso, ordinato,
DAMMI TEMPO, È UNA COSA SERIA.
Eccola,
disse infine, sollevando la testa e guardando soddisfatto la parola
che teneva in mano.
Poi
si rivolse a Dominique, La verità, ragazzo, è che il luogo
segretissimo e nascosto è diverso per ognuno di noi. Quindi non
posso indicarti la strada, perché il mio luogo è unico e vale solo
per me. Però posso aiutarti a trovare il tuo.
E
a quel punto gli diede la parola che aveva preso dallo scatolone.
Poi
disse, Prendi, portala con te, funzionerà come una calamita. Quando
sarai vicino al luogo segretissimo e nascosto, lei comincerà a
vibrare, perché le parole vive sono attratte dalla sorgente. Allora
seguila fino a quando non sarai arrivato.
Dominique
prese la parola dalle mani del vecchio e la tenne tra le dita
sussurrandone il nome.
Giona
lo zittì immediatamente. No, chiamala quando sarai da solo, in un
luogo appartato, allora lei ti riconoscerà e ti diventerà amica.
Poi
gli diede un pezzo di spago e disse, Tieni questo, potrebbe servirti.
E ricorda, quando sarai arrivato, non aver paura, ma ascolta. Se
avrai pazienza, andrà tutto bene.
Dominique
prese lo spago, poi abbracciò Giona e uscì. Fuori era tornato il
sereno. Decise di andare subito a cercare il suo luogo segretissimo e
nascosto. Aveva già otto anni e non c’era ancora mai stato! Per
prima cosa pensò da dove avrebbe potuto cominciare la ricerca. Il
luogo segretissimo e nascosto poteva essere ovunque, gli aveva detto
Giona, perché dipendeva da quello che gli piaceva. Dominique pensò
ai posti dove gli piaceva andare e per prima cosa andò al parco. Ma
la parola non sembrò affatto attratta da quel posto di alberi e
giochi. Poi passò davanti al negozio di giocattoli, alla piscina, al
reparto dolci del supermercato, ma la parola non vibrò nemmeno per
un momento. Il vecchio gli aveva detto che non sarebbe stato facile,
e Dominique non si scoraggiò. Sono posti troppo rumorosi, si disse,
non riuscirei ad ascoltare nulla, meglio cercare qualcosa di più
tranquillo.
Allora
andò in una chiesa, pensando che la religione l’avrebbe aiutato,
poi in un museo, pensando che l’arte l’avrebbe aiutato, andò
infine in una biblioteca, pensando che la cultura l’avrebbe
aiutato, ma in nessuno di questi luoghi la parola si mise a vibrare.
Era
ormai sera quando Dominique si sedette su una panchina. Non gli erano
rimasti molti luoghi in città dove andare a cercare. Chiuse gli
occhi e sussurrò la parola che gli aveva dato Giona. Aveva un bel
suono. Capì in quell’istante che la città non andava bene, il suo
luogo segretissimo non poteva essere là dove lui non riusciva a
parlare. Doveva cercare altrove, ma dove?
Si
sa che le parole con cui parliamo dentro a noi stessi sono molto più
potenti di quelle che pronunciamo a voce alta, esse infatti non si
disperdono al vento ma restano nella corteccia del nostro corpo e
mettono radici. E infatti Dominique disse a se stesso, risoluto come
solo i bambini sanno essere, Andrò verso il tramonto.
E
alzatosi, prese a camminare verso il sole.
Camminò
a lungo, perché il sole ha il vizio di andare sempre oltre. Ma a
Dominique piaceva andare verso tutto quel rosso e quel porpora, gli
metteva allegria. Prese così una stradina che si snodava tra le
ultime case della città. Una staccionata tracciava i confini con la
campagna circostante, e Dominique la superò immergendosi sempre più
nei rumori e bisbigli dei prati in estate. Non si ricordava di essere
mai stato da quelle parti, ma il sole era lì, dritto davanti a lui,
perciò continuò a camminare.
Poi,
all’improvviso, sentì che nella tasca dei pantaloni la parola si
stava muovendo.
Allora
la prese in mano con cautela e la guardò. Sfarfallava come una
libellula. Per non perderla, la legò ad una estremità dello spago
che gli aveva dato il vecchio Giona, poi aprì la mano e la lasciò
volare, tenendola per l’altro capo della corda come fosse un
aquilone.
La
stradina cominciò a salire tra prati d’erba alta. Su tutto passava
un vento, leggero e fresco, spandendo i profumi dell’estate.
Dominique
attraversò così un grande prato, poi un boschetto e un piccolo
torrente, sempre inseguendo la sua parola. E vide, a un certo punto,
nella penombra degli alberi, tronchi che non sembravano semplici
tronchi, e rami che non sembravano semplici rami. Avevano una forma
strana, come se qualcuno li avesse piantati in ordine per formare
colonne. Gli alberi così disposti andavano a formare navate e si
chiudevano in archi a sesto acuto che si stagliavano in cielo.
Incuriosito,
Dominique si avvicinò e guardò con più attenzione. Davanti a lui
si ergeva una cattedrale, e non fatta di assi di legno e mattoni, ma
di alberi vivi, coi rami coperti di foglie e la linfa nelle radici,
lastricata d’erba invece di marmo e con il cielo a fare da volta
affrescata. Era uno spettacolo straordinario.
Non
aveva dubbi, era arrivato al suo luogo segretissimo e nascosto. Ed
era davvero un gran bel luogo, notò compiaciuto. Nessun architetto
avrebbe mai potuto costruire qualcosa di altrettanto bello, solenne e
accogliente.
Camminando
tra le colonne d’albero, sotto l’arco della luna che cominciava
ad affiorare, Dominique ammirava stupito quella costruzione naturale
e ascoltava il vento che suonava una musica senza strumenti, fatta di
carezze e bisbigli, sussurrata in punta di labbra alle foglie. Si
sentì protetto e al sicuro.
Ad
un certo punto si accorse che al centro della navata centrale c’era
un tronco scavato a sedia, opera di chissà quale mano. Era consumato
dai tarli, come se fosse rimasto lì a lungo, sotto qualsiasi tempo e
qualsiasi sole. Sembrava il trono per un re semplice.
Dominique
si avvicinò e notò con sorpresa che sul trono c’era un biglietto
con su scritto “Siediti”. Proprio in quell’istante, la parola
che aveva tenuto legata fino a quel momento, si avvicinò al trono ed
esplose in un piccolo fiocco di luce. Dominique era molto stupito.
Come poteva essere che quel trono fosse lì per lui? Si guardò
attorno, per vedere se c’era qualcuno, ma il luogo era deserto.
Giona gli aveva detto che il luogo segretissimo e nascosto è unico
per ogni persona e lui non aveva dubbi, quello era il suo. Allora,
facendo un bel respiro carico di desideri, si sedette sul tronco
tagliato a trono. Sapeva di resina e di parole belle, quelle che lui
stava cercando da sempre.
Resto
lì seduto ad ascoltare, come gli aveva detto il vecchio Giona,
familiarizzando con i rumori di quel luogo fino a quando non cominciò
a sentirne i pensieri. Stavano nascosti tra le foglie e sotto le
radici degli alberi e bisbigliavano, come fanno i bambini quando
confidano segreti.
Il
vento cominciò a sollevarli verso l’alto, oltre la volta della
cattedrale. Li faceva girare intorno e poi ricadere giù, a volte
veloce a volte piano. Creava i movimenti, come aveva detto Giona, per
dar vita alle parole.
Dominique
si domandò quanto tempo ci sarebbe voluto. Chissà se per nascere le
parole erano come i girini che spuntavano in una sera o se
impiegavano lo stesso tempo dei gatti o dei bambini. L’idea di
aspettare così tanto gli fece venire il solletico. Aveva un gran
voglia di rincorrere i pensieri invece di star fermo lì seduto, ma
ricordandosi della parole del vecchio, attese paziente che le parole
nascessero.
Lì
non era come in fabbrica, dove ogni giorno si costruivano parole da
usare e consumare in fretta. Le parole segrete e nascoste erano
grandi, eterne, per cui ci voleva più tempo perché nascessero.
Servivano pensieri forti come le querce, e tanto, tanto vento per
sollevarli e muoverli.
Dominique
attese a lungo, fino a quando l’estate se ne andò, cielo si fece
pallido e i rami si spogliarono lasciando cadere a terra le foglie.
Allora il vento sollevò i pensieri molto in alto, li addensò in
nubi e tutto si fece freddo e silenzioso.
Poi,
piano piano, dal cielo cominciarono a cadere piccoli fiocchi bianchi.
Erano le parole bambine.
Dominique
aprì le mani per accoglierle. Presto tutto fu bianco.
Quel
giorno Dominique cantò con tutta la sua voce il suo grazie. Quel
giorno era Natale.