Questo racconto, tratto dal mio libro "Sette Passi", nasce dopo essere stata, quasi per caso, in Val di Sella, dove in un luogo quasi nascosto natura e arte si compenetrano dando vita a un dialogo silenzioso quanto rasserenante.
LA
CATTEDRALE
Questa
storia comincia un pomeriggio d’agosto, durante uno di quei forti
temporali estivi in cui pare che il cielo crolli di colpo trascinando
a terra metà delle fondamenta del paradiso. Allora onde di polvere e
foglie vengono sollevate da terra dal vento e tutto intorno si fa
buio grosso.
Niente
di strano, un temporale è accidente abbastanza comune in estate, e
se spaventa i più sensibili di cuore con la sua prepotenza, è pur
vero che si esaurisce presto e tutto torna come prima, ma più
limpido, con una luce che pulisce gli occhi.
Ma
andiamo con ordine.
C’era
in paese una fabbrica molto importante, la fabbrica delle parole,
dove ogni giorno si producevano vocaboli come ar-chi-tet-to,
mar-ghe-ri-ta, sa-la-man-dra, be-ne-stan-te, ca-pri-cio-so,
ri-fran-gen-te, sa-la-man-dra, com-mis-sa-rio e così via. Centinaia
di migliaia di parole e modi di dire per stupire, conquistare,
affascinare, far ridere o piangere, costruire consensi, governare
società, inventare verità, insomma dare forma a quel caos che è la
realtà, che altrimenti non si saprebbe come controllarla. L’umanità
intera stava vivendo nell’era della comunicazione e mai come allora
si consumavano così tanti vocaboli ogni giorno. Un flusso costante
di parole correva veloce per ogni angolo del mondo, che era diventato
un enorme mercato di parole. C’era chi si arricchiva vendendo
segni, significati e, sopratutto, traduzioni e interpretazioni.
In
fabbrica si lavorava giorno e notte, perché le parole servivano
sempre, che fosse bello o brutto tempo, caldo o freddo, domenica
mattina o venerdì sera, e pure di notte, per poter parlare nei sogni
e svegliarsi dagli incubi.
Nella
fabbrica c’erano vari reparti, ciascuno specializzato nel
vocabolario da usare in un determinato contesto. Per esempio c’era
il reparto per la pesca sportiva, quello per i gusti di gelato,
quello per la medicina, quello per le democrazie, quello per le
guerre e quello per la pace. Alcuni reparti erano piccoli, perché
c’era poco da dire, come il reparto per le parole dei bimbi di meno
di un anno, lì c’era solo qualche vocale traballante sparpagliata
in un mare di gorgoglii informi, mentre altri erano molto grandi e
indaffaratissimi, come il reparto della politica, per esempio, o
quelli dello spettacolo e della tecnologia. C’era anche il reparto
import-export, dove si confezionavano le parole straniere per parlare
in altre lingue, e il reparto della parole d’antiquariato, cioè
quelle fuori moda o in disuso, come torneamento, vossignoria,
soprasberga, donzelletta.
Quel
pomeriggio, dunque, un violento temporale si era abbattuto sul paese,
e la gente, presa di soprassalto, si era rifugiata dove poteva, chi
sotto i ponti, chi negli uffici postali, chi nei bar, un caffè
macchiato caldo e non ha per caso un asciugamano da darmi che sono
tutto fradicio, ma certo, tenga, come lo voleva il caffè, macchiato
ha detto? Sì, e caldo, grazie, che tempaccio là fuori, eh sì, non
me ne parli, un muro d’acqua.
Quelli
che avevano finito il turno in fabbrica erano rimasti all’ingresso
ad aspettare che passasse la bufera, neanche i lupi sarebbero usciti
dalla tana con un tempo come quello, e intanto si scambiavano quattro
parole, letteralmente parlando, proprio come con le figurine, questa
ce l’ho, anche questa, questa mi manca, te la dò in cambio di due
parole di fantascienza, e così via.
C’era
anche un bambino che aspettava che suo padre finisse di lavorare per
tornare a casa. Era agosto, le scuole erano chiuse, i nonni in
vacanza, la babysitter pure, come si fa? E così Dominique, questo il
nome del bimbo, passava un giorno in ufficio con il papà e uno con
la mamma, e principalmente si annoiava sia da una parte che
dall’altra, perché nessuno gli dava retta un granché, fermi
com’erano dietro le loro scrivanie. Solo che il temporale gli
faceva paura, ma di quelle buie, da scappare via senza voltarsi più
indietro, perciò, al terzo o quarto rombo di tuono, Dominique si
mise a correre per i corridoi in cerca di un posticino sicuro dove
nascondersi. Passando di porta in porta, leggeva i nomi dei vari
reparti. Scienze diplomatiche internazionali, no, non andava bene,
Neuropsichiatria infantile, nemmeno, Vulcanologia applicata... Non ce
n’era uno che lo rassicurasse, qualcosa che ricordasse vagamente la
sensazione del rifugio. Chi mai poteva sentirsi sicuro tra vulcani e
terremoti? Alla fine però trovò una porta su cui non c’era
scritto niente. Senza pensarci su due volte, entrò.
Si
ritrovò in una stanza doveva essere uno vecchio magazzino
abbandonato. Dominique cominciò a guardarsi intorno, passando tra
scaffali ormai vuoti, quando all’improvviso vide, seduto alla
finestra, un vecchietto che lanciava... un aquilone.
Se
in quel momento qualcun altro fosse stato presente nella stanza, di
certo non avrebbe saputo dire chi dei due fosse più sorpreso, se il
vecchio scoperto a fare giochi da bambini, o il bambino scoperto a
stare in un luogo dove non avrebbe dovuto essere.
Fu
comunque il vecchio a parlare per primo.
Ciao
come ti chiami?, chiese scendendo dalla finestra e rimettendo in
ordine l’aquilone, ma Dominique, invece di rispondere, si nascose
dietro uno scaffale.
Spaventato
dal temporale?, continuò il vecchio, per nulla stupito della
reazione del bambino. Non ti preoccupare, non durerà ancora a lungo.
Vieni, siediti, non aver paura.
Dominique
si vide offrire una sedia e un bicchiere di latte. Si guardò
intorno. C’era un letto in un angolo e una poltrona con una pila di
libri sopra, una cassapanca e diversi scatoloni sparsi qua e là, per
lo più ancora chiusi. Dunque quello non era solo un vecchio
magazzino abbandonato, ma anche l’abitazione di quel signore. Che
fosse il custode? Non aveva mai saputo che la fabbrica ne avesse uno.
Ti
piacciono gli aquiloni?, domandò il vecchio.
Dominique
non rispose. Silenzio. Nemmeno mezza parola.
Il
vecchio sospirò. Gli sarebbe piaciuto un po’ di conversazione, non
veniva a trovarlo molta gente là dentro, tuttavia non insistette.
L’amicizia è una una faccenda complessa, meglio se parte lenta,
senza fretta.
Sul
tavolo c’erano dei fogli e delle matite. Dominique ne prese uno e
vi scrisse sopra qualcosa, poi lo diede al vecchio.
Il
foglio diceva, MI CHIAMO DOMINIQUE, SONO MUTO.
Il
vecchio ne fu sorpreso, non se lo aspettava. Nell’era della
comunicazione, all’interno della fabbrica delle parole, essere muto
era davvero un controsenso straordinario. Rimase in silenzio per un
poco a osservare le parole che il bambino aveva scritto sulla carta.
Erano in azzurro e sul bianco sembravano righe di cielo sereno sopra
le nuvole. Allora prese a sua volta una matita e scrisse sul foglio
BENVENUTO DOMINIQUE, IO SONO GIONA, e lo diede al bambino.
Dominique
sorrise. Sul foglio c’era un sole. Il vecchio aveva scritto le
parole in cerchio con il giallo.
La
conversazione andò più o meno avanti così, a colpi di matite
colorate su fogli di carta.
Dominique,
Fai volare gli aquiloni?
Giona,
Non esattamente.
Dominique,
E cosa allora?
Giona,
Li libero.
Dominique,
E perché?
Pausa.
Giona,
Giuri di non dirlo a nessuno?
Dominique,
Giuro.
Giona,
Sono un contrabbandiere.
Dominique,
sgranò gli occhi. Un contrabbandiere di aquiloni?
Giona,
No, di parole.
Dominique
a quel punto fu particolarmente sorpreso. Stette a pensare un poco,
perplesso, poi scrisse, Che tipo di parole?
Giona,
Parole dimenticate.
Dominique,
Come sarebbe dimenticate?
Giona
a quel punto abbandonò carta e matita e iniziò a parlare, Questo
che vedi è il reparto delle parole dimenticate, l’ho inventato io
stesso.
(continua nel post: CATTEDRALE 2)
Nessun commento:
Posta un commento