mercoledì 5 settembre 2012

la cattedrale

Le parole che ci diciamo dentro, quelle che ci sussurriamo di continuo, anche quando non ne siamo consapevoli, costruiscono, scavano, riempiono, svuotano il nostro paesaggio interiore. Possiamo, con le parole perderci in labirinti di sofferenza, lanciarci nel vuoto dell'ignoto con il sorriso in mano, erigere roccaforti di pregiudizi, costruire ponti di gioia.
Questo racconto, tratto dal mio libro "Sette Passi", nasce dopo essere stata, quasi per caso, in Val di Sella, dove in un luogo quasi nascosto natura e arte si compenetrano dando vita a un dialogo silenzioso quanto rasserenante.
 
LA CATTEDRALE
Questa storia comincia un pomeriggio d’agosto, durante uno di quei forti temporali estivi in cui pare che il cielo crolli di colpo trascinando a terra metà delle fondamenta del paradiso. Allora onde di polvere e foglie vengono sollevate da terra dal vento e tutto intorno si fa buio grosso.
Niente di strano, un temporale è accidente abbastanza comune in estate, e se spaventa i più sensibili di cuore con la sua prepotenza, è pur vero che si esaurisce presto e tutto torna come prima, ma più limpido, con una luce che pulisce gli occhi.
Ma andiamo con ordine.
C’era in paese una fabbrica molto importante, la fabbrica delle parole, dove ogni giorno si producevano vocaboli come ar-chi-tet-to, mar-ghe-ri-ta, sa-la-man-dra, be-ne-stan-te, ca-pri-cio-so, ri-fran-gen-te, sa-la-man-dra, com-mis-sa-rio e così via. Centinaia di migliaia di parole e modi di dire per stupire, conquistare, affascinare, far ridere o piangere, costruire consensi, governare società, inventare verità, insomma dare forma a quel caos che è la realtà, che altrimenti non si saprebbe come controllarla. L’umanità intera stava vivendo nell’era della comunicazione e mai come allora si consumavano così tanti vocaboli ogni giorno. Un flusso costante di parole correva veloce per ogni angolo del mondo, che era diventato un enorme mercato di parole. C’era chi si arricchiva vendendo segni, significati e, sopratutto, traduzioni e interpretazioni.
In fabbrica si lavorava giorno e notte, perché le parole servivano sempre, che fosse bello o brutto tempo, caldo o freddo, domenica mattina o venerdì sera, e pure di notte, per poter parlare nei sogni e svegliarsi dagli incubi.
Nella fabbrica c’erano vari reparti, ciascuno specializzato nel vocabolario da usare in un determinato contesto. Per esempio c’era il reparto per la pesca sportiva, quello per i gusti di gelato, quello per la medicina, quello per le democrazie, quello per le guerre e quello per la pace. Alcuni reparti erano piccoli, perché c’era poco da dire, come il reparto per le parole dei bimbi di meno di un anno, lì c’era solo qualche vocale traballante sparpagliata in un mare di gorgoglii informi, mentre altri erano molto grandi e indaffaratissimi, come il reparto della politica, per esempio, o quelli dello spettacolo e della tecnologia. C’era anche il reparto import-export, dove si confezionavano le parole straniere per parlare in altre lingue, e il reparto della parole d’antiquariato, cioè quelle fuori moda o in disuso, come torneamento, vossignoria, soprasberga, donzelletta.
Quel pomeriggio, dunque, un violento temporale si era abbattuto sul paese, e la gente, presa di soprassalto, si era rifugiata dove poteva, chi sotto i ponti, chi negli uffici postali, chi nei bar, un caffè macchiato caldo e non ha per caso un asciugamano da darmi che sono tutto fradicio, ma certo, tenga, come lo voleva il caffè, macchiato ha detto? Sì, e caldo, grazie, che tempaccio là fuori, eh sì, non me ne parli, un muro d’acqua.
Quelli che avevano finito il turno in fabbrica erano rimasti all’ingresso ad aspettare che passasse la bufera, neanche i lupi sarebbero usciti dalla tana con un tempo come quello, e intanto si scambiavano quattro parole, letteralmente parlando, proprio come con le figurine, questa ce l’ho, anche questa, questa mi manca, te la dò in cambio di due parole di fantascienza, e così via.
C’era anche un bambino che aspettava che suo padre finisse di lavorare per tornare a casa. Era agosto, le scuole erano chiuse, i nonni in vacanza, la babysitter pure, come si fa? E così Dominique, questo il nome del bimbo, passava un giorno in ufficio con il papà e uno con la mamma, e principalmente si annoiava sia da una parte che dall’altra, perché nessuno gli dava retta un granché, fermi com’erano dietro le loro scrivanie. Solo che il temporale gli faceva paura, ma di quelle buie, da scappare via senza voltarsi più indietro, perciò, al terzo o quarto rombo di tuono, Dominique si mise a correre per i corridoi in cerca di un posticino sicuro dove nascondersi. Passando di porta in porta, leggeva i nomi dei vari reparti. Scienze diplomatiche internazionali, no, non andava bene, Neuropsichiatria infantile, nemmeno, Vulcanologia applicata... Non ce n’era uno che lo rassicurasse, qualcosa che ricordasse vagamente la sensazione del rifugio. Chi mai poteva sentirsi sicuro tra vulcani e terremoti? Alla fine però trovò una porta su cui non c’era scritto niente. Senza pensarci su due volte, entrò.
Si ritrovò in una stanza doveva essere uno vecchio magazzino abbandonato. Dominique cominciò a guardarsi intorno, passando tra scaffali ormai vuoti, quando all’improvviso vide, seduto alla finestra, un vecchietto che lanciava... un aquilone.
Se in quel momento qualcun altro fosse stato presente nella stanza, di certo non avrebbe saputo dire chi dei due fosse più sorpreso, se il vecchio scoperto a fare giochi da bambini, o il bambino scoperto a stare in un luogo dove non avrebbe dovuto essere.
Fu comunque il vecchio a parlare per primo.
Ciao come ti chiami?, chiese scendendo dalla finestra e rimettendo in ordine l’aquilone, ma Dominique, invece di rispondere, si nascose dietro uno scaffale.
Spaventato dal temporale?, continuò il vecchio, per nulla stupito della reazione del bambino. Non ti preoccupare, non durerà ancora a lungo. Vieni, siediti, non aver paura.
Dominique si vide offrire una sedia e un bicchiere di latte. Si guardò intorno. C’era un letto in un angolo e una poltrona con una pila di libri sopra, una cassapanca e diversi scatoloni sparsi qua e là, per lo più ancora chiusi. Dunque quello non era solo un vecchio magazzino abbandonato, ma anche l’abitazione di quel signore. Che fosse il custode? Non aveva mai saputo che la fabbrica ne avesse uno.
Ti piacciono gli aquiloni?, domandò il vecchio.
Dominique non rispose. Silenzio. Nemmeno mezza parola.
Il vecchio sospirò. Gli sarebbe piaciuto un po’ di conversazione, non veniva a trovarlo molta gente là dentro, tuttavia non insistette. L’amicizia è una una faccenda complessa, meglio se parte lenta, senza fretta.
Sul tavolo c’erano dei fogli e delle matite. Dominique ne prese uno e vi scrisse sopra qualcosa, poi lo diede al vecchio.
Il foglio diceva, MI CHIAMO DOMINIQUE, SONO MUTO.
Il vecchio ne fu sorpreso, non se lo aspettava. Nell’era della comunicazione, all’interno della fabbrica delle parole, essere muto era davvero un controsenso straordinario. Rimase in silenzio per un poco a osservare le parole che il bambino aveva scritto sulla carta. Erano in azzurro e sul bianco sembravano righe di cielo sereno sopra le nuvole. Allora prese a sua volta una matita e scrisse sul foglio BENVENUTO DOMINIQUE, IO SONO GIONA, e lo diede al bambino.
Dominique sorrise. Sul foglio c’era un sole. Il vecchio aveva scritto le parole in cerchio con il giallo.
La conversazione andò più o meno avanti così, a colpi di matite colorate su fogli di carta.
Dominique, Fai volare gli aquiloni?
Giona, Non esattamente.
Dominique, E cosa allora?
Giona, Li libero.
Dominique, E perché?
Pausa.
Giona, Giuri di non dirlo a nessuno?
Dominique, Giuro.
Giona, Sono un contrabbandiere.
Dominique, sgranò gli occhi. Un contrabbandiere di aquiloni?
Giona, No, di parole.
Dominique a quel punto fu particolarmente sorpreso. Stette a pensare un poco, perplesso, poi scrisse, Che tipo di parole?
Giona, Parole dimenticate.
Dominique, Come sarebbe dimenticate?
Giona a quel punto abbandonò carta e matita e iniziò a parlare, Questo che vedi è il reparto delle parole dimenticate, l’ho inventato io stesso. 

(continua nel post: CATTEDRALE 2)

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