Oggi, in questo post, pubblico una favola scritta qualche tempo fa. Una favola che parla agli adulti, al wild side di ogni uomo e donna. Una favola è invenzione, e invenzione sono le etichette con cui cataloghiamo tutta la vita che respira e si muove dentro e fuori di noi, sempre.
Le illustrazioni sono state realizzate dalle abili mani e dal cuore profondissimo di Lorenza Troian, che ha curato tutto lo storyboard. Per poterlo fare diventare un libro illustrato e portarlo alle stampe la strada è difficile, perché non c'è spazio per la verità ora come non c'era spazio quando Gesù-Verità è venuto nel mondo, ma se qualcuno vuole contribuire alla realizzazione del progetto, mi scriva.
Non rinchiudete mai nel buio i vostri desideri. E' il mio augurio a tutti per questo Natale.
lunedì 24 dicembre 2012
lunedì 17 dicembre 2012
the wild side
Una cagna al suo primo parto dà alla luce dieci cuccioli. Fa tutto da sola, mentre non c'è nessuno in casa. Non ha seguito corsi pre-parto, non ha il suo compagno accanto che le sostiene la mano, non si preoccupa per le smagliature al seno o se era meglio fare il taglio cesareo.
Uomo, dove sei?
Uno scarabeo sa orientarsi perfettamente in mezzo al deserto, gli basta guardare la luce polarizzata in cielo. Non ha con sé navigatori satellitari, computer di bordo, gps di ultima generazione.
Uono dove sei?
Una giraffa può impiegare due ore per fare i cento metri che la separano dalla pozza d'acqua dove intende abbeverarsi. Attorno sa che ci sono predatori pronti ad approfittare della sua fretta dettata dal bisogno. Si prende tempo, tutto il tempo che serve, per assicurarsi acqua e vita. Ogni animale ha bisogno di spazio per vivere, ma non ha mai fretta. Noi abbiamo ridotto il nostro spazio vitale e di conseguenza accelerato il tempo.
Spazio non è solo questione di casa. Due rondini riescono a far crescere anche sei o sette piccoli nello spazio minuscolo di un nido, ma hanno l'intero cielo per volare. I poveri vivono in monolocali, i ricchi in ville con parchi e giardini, ma siamo tutti ingannati e affamati di spazio. Le tane degli animali sono piccole, giuste giuste per proteggersi e riposare, ma è lo spazio fuori quello di cui hanno bisogno per vivere. Ed è tutto gratuito in natura.
Uomo, dove sei?
Uomo, dove sei?
Uno scarabeo sa orientarsi perfettamente in mezzo al deserto, gli basta guardare la luce polarizzata in cielo. Non ha con sé navigatori satellitari, computer di bordo, gps di ultima generazione.
Uono dove sei?
Una giraffa può impiegare due ore per fare i cento metri che la separano dalla pozza d'acqua dove intende abbeverarsi. Attorno sa che ci sono predatori pronti ad approfittare della sua fretta dettata dal bisogno. Si prende tempo, tutto il tempo che serve, per assicurarsi acqua e vita. Ogni animale ha bisogno di spazio per vivere, ma non ha mai fretta. Noi abbiamo ridotto il nostro spazio vitale e di conseguenza accelerato il tempo.
Spazio non è solo questione di casa. Due rondini riescono a far crescere anche sei o sette piccoli nello spazio minuscolo di un nido, ma hanno l'intero cielo per volare. I poveri vivono in monolocali, i ricchi in ville con parchi e giardini, ma siamo tutti ingannati e affamati di spazio. Le tane degli animali sono piccole, giuste giuste per proteggersi e riposare, ma è lo spazio fuori quello di cui hanno bisogno per vivere. Ed è tutto gratuito in natura.
Uomo, dove sei?
giovedì 8 novembre 2012
al guinzaglio
Ho la fortuna-sfortuna di avere un padrone. Maschio giovane, sulla trentina, pelo riccio incolto in testa e corto e ispido sulla faccia, allegra.
Almeno due volte al giorno andiamo fuori a camminare. Tutti i giorni, Natale e Capodanno compresi. Usciamo al mattino, prima del lavoro, e alla sera, quando torna dalla sua giornata.
Io l'aspetto, sempre. Mi basta vedergli le chiavi di casa in mano per sapere con precisione che è arrivato il momento di andare in giro insieme. E la cosa mi garba proprio, tanto che scondinzolo e abbaio per dimostragli il mio compiacimento. Comunichiamo molto noi cani, siamo essere socievoli e chi ci vede ringhiare a volte dovrebbe guardarsi allo specchio quando alza la voce o litiga con qualcuno. Nel mondo del mio padrone, l'aggressività pare essere un problema. Mi sfugge ancora il motivo.
Quando usciamo mi mette il guinzaglio. Mi soprendevo all'inizio. Non ero abituato a muovermi con lui legato addosso. Non capivo perché avesse bisogno di starmi attaccato così. Poi ho capito. Non hanno molta fiducia gli uomini, mentre hanno molte paure.
Nel mondo del mio padrone tutti vanno al guinzaglio.
Le paure sono i loro primi guinzagli, spesso mi capita di incrociare umani per la strada con un'intera schiera di paure-padroni che li tengono al guinzaglio.
Le paure sono padroni pesanti, pigri, estremamente territoriali, lasciano poco spazio al movimento, alla libertà d'azione.
L'ambizione invece è un padrone sempre nervoso, eccitato, iperattivo ma al contempo rigido, scattoso ma non scattante. Gli umani che hanno l'ambizione come padrone sono tesi, stressati, non vedono il presente, sono troppo occupati a seguire una pista che io, pur con le mie sottilissime cellule olfattive, non riesco a fiutare.
Il padrone più comune però è la rabbia. Ama tenere il guinzaglio stretto e rispetto agli altri padroni, è il più prolifico, si riproduce facilmente e in fretta, come i ratti.
Il padrone-rabbia esce spesso in compagnia di paura e ambizione. E' uno spettacolo strano vedere tutti questi umani che si muovono trasportati al guinzaglio da così tanti padroni. Finisce spesso che i guinzagli si intrecciano, si annodano, e nessuno si muove più, ma tutti gridano, o piangono, o bestemmiano il nome di qualcuno che, da quel che capisco, deve averli abbandonati.
A volte anche il mio padrone sta via per un po'. Ma non mi abbandona mai. So che torna, che torna sempre, io ho fiducia in lui. Il mio padrone è buono.
E quando nessuno ci vede e siamo in un luogo aperto, lui mi toglie il guinzaglio, e io lo aiuto a liberarsi i suoi.
Almeno due volte al giorno andiamo fuori a camminare. Tutti i giorni, Natale e Capodanno compresi. Usciamo al mattino, prima del lavoro, e alla sera, quando torna dalla sua giornata.
Io l'aspetto, sempre. Mi basta vedergli le chiavi di casa in mano per sapere con precisione che è arrivato il momento di andare in giro insieme. E la cosa mi garba proprio, tanto che scondinzolo e abbaio per dimostragli il mio compiacimento. Comunichiamo molto noi cani, siamo essere socievoli e chi ci vede ringhiare a volte dovrebbe guardarsi allo specchio quando alza la voce o litiga con qualcuno. Nel mondo del mio padrone, l'aggressività pare essere un problema. Mi sfugge ancora il motivo.
Quando usciamo mi mette il guinzaglio. Mi soprendevo all'inizio. Non ero abituato a muovermi con lui legato addosso. Non capivo perché avesse bisogno di starmi attaccato così. Poi ho capito. Non hanno molta fiducia gli uomini, mentre hanno molte paure.
Nel mondo del mio padrone tutti vanno al guinzaglio.
Le paure sono i loro primi guinzagli, spesso mi capita di incrociare umani per la strada con un'intera schiera di paure-padroni che li tengono al guinzaglio.
Le paure sono padroni pesanti, pigri, estremamente territoriali, lasciano poco spazio al movimento, alla libertà d'azione.
L'ambizione invece è un padrone sempre nervoso, eccitato, iperattivo ma al contempo rigido, scattoso ma non scattante. Gli umani che hanno l'ambizione come padrone sono tesi, stressati, non vedono il presente, sono troppo occupati a seguire una pista che io, pur con le mie sottilissime cellule olfattive, non riesco a fiutare.
Il padrone più comune però è la rabbia. Ama tenere il guinzaglio stretto e rispetto agli altri padroni, è il più prolifico, si riproduce facilmente e in fretta, come i ratti.
Il padrone-rabbia esce spesso in compagnia di paura e ambizione. E' uno spettacolo strano vedere tutti questi umani che si muovono trasportati al guinzaglio da così tanti padroni. Finisce spesso che i guinzagli si intrecciano, si annodano, e nessuno si muove più, ma tutti gridano, o piangono, o bestemmiano il nome di qualcuno che, da quel che capisco, deve averli abbandonati.
A volte anche il mio padrone sta via per un po'. Ma non mi abbandona mai. So che torna, che torna sempre, io ho fiducia in lui. Il mio padrone è buono.
E quando nessuno ci vede e siamo in un luogo aperto, lui mi toglie il guinzaglio, e io lo aiuto a liberarsi i suoi.
mercoledì 3 ottobre 2012
direzione
L'astronomia ha dimostrato da secoli che la terra è tonda, ma noi continuiamo a ragionare in linea retta. Le immagini dei satelliti e i viaggi spaziali non sono sufficienti per farci modificare il nostro modo di pensare euclideo. Il mondo per noi è ancora piatto, alla faccia della rivoluzione copernicana.
Le misure sono convenzioni più o meno efficaci, abbiamo bisogno di un modo di semplificare la realtà, farla stare in un righello e misurarla.
Una linea retta dunque apparentemente traccia un percorso di unione tra due punti. Ma è proprio così? Facciamo un semplice esempio.
Immaginiamo per un momento di disegnare due punti su un foglio di carta e di unirli con una linea. I punti sono ancora lì, uno distante dall'altro, con un percorso da percorrere. I punti non si uniscono, al massimo io potrò percorrere quel tracciato e andare da A a B.Prendiamo ora quegli stessi punti e proviamo a disegnarci un cerchio che li comprenda. Alla fine non sapremo veramente dove siano A e B, in quanto il tracciato per ragiungere l'uno o l'altro punto è ora una linea curva, per cui se la percorro tutta, sono in grado di tornare al punto di partenza senza mai voltarmi indietro, come invece dovrei fare se procedessi in linea retta.
Questo accade anche nel mondo delle relazioni, delle scelte, rappresenta come ci rapportiamo nel cammino della nostra esistenza. Il nostro modo di concepire e quindi muoverci nella realtà è costruito per punti e linee. Pur sapendo che tutto ciò non è reale, noi ragioniamo per nord e sud, est ed ovest, partenze ed arrivi tracciati su mappe lineari della nostra esistenza.
Calcoliamo la vita come una linea, e questo crea una distanza tra noi e il reale. Ci distanziamo dalla realtà, e pretendiamo di misurarla, calcolarla, senza poterla mai raggiungere veramente. Spesso parliamo di distanza tra i nostri desideri e la realtà, tra i nostri sogni e le difficoltà della vita, e a volte la distanza è tale da farci desistere, arrendere e abbandonare il cammino.
L'alternativa è fare cerchio, ovvero abbracciare l'esperienza per quello che è, farla nostra, accettarla, senza misurarla, senza giudicarla.
La terra è tonda, la natura si muove secondo un ciclo, stelle e pianeti si muovono secondo orbite. E se una linea è caratterizzata da due punti, o infiniti punti, che mai si toccano, un cerchio ha sempre un centro. L'uomo ha il suo centro, e lo può conservare solo facendo cerchio con la realtà.
Non tracciare, uomo, abbraccia.
Le misure sono convenzioni più o meno efficaci, abbiamo bisogno di un modo di semplificare la realtà, farla stare in un righello e misurarla.
Una linea retta dunque apparentemente traccia un percorso di unione tra due punti. Ma è proprio così? Facciamo un semplice esempio.
Immaginiamo per un momento di disegnare due punti su un foglio di carta e di unirli con una linea. I punti sono ancora lì, uno distante dall'altro, con un percorso da percorrere. I punti non si uniscono, al massimo io potrò percorrere quel tracciato e andare da A a B.Prendiamo ora quegli stessi punti e proviamo a disegnarci un cerchio che li comprenda. Alla fine non sapremo veramente dove siano A e B, in quanto il tracciato per ragiungere l'uno o l'altro punto è ora una linea curva, per cui se la percorro tutta, sono in grado di tornare al punto di partenza senza mai voltarmi indietro, come invece dovrei fare se procedessi in linea retta.
Questo accade anche nel mondo delle relazioni, delle scelte, rappresenta come ci rapportiamo nel cammino della nostra esistenza. Il nostro modo di concepire e quindi muoverci nella realtà è costruito per punti e linee. Pur sapendo che tutto ciò non è reale, noi ragioniamo per nord e sud, est ed ovest, partenze ed arrivi tracciati su mappe lineari della nostra esistenza.
Calcoliamo la vita come una linea, e questo crea una distanza tra noi e il reale. Ci distanziamo dalla realtà, e pretendiamo di misurarla, calcolarla, senza poterla mai raggiungere veramente. Spesso parliamo di distanza tra i nostri desideri e la realtà, tra i nostri sogni e le difficoltà della vita, e a volte la distanza è tale da farci desistere, arrendere e abbandonare il cammino.
L'alternativa è fare cerchio, ovvero abbracciare l'esperienza per quello che è, farla nostra, accettarla, senza misurarla, senza giudicarla.
La terra è tonda, la natura si muove secondo un ciclo, stelle e pianeti si muovono secondo orbite. E se una linea è caratterizzata da due punti, o infiniti punti, che mai si toccano, un cerchio ha sempre un centro. L'uomo ha il suo centro, e lo può conservare solo facendo cerchio con la realtà.
Non tracciare, uomo, abbraccia.
lunedì 17 settembre 2012
im-possibile
Studiando lingue è possibile capire il sistema con cui ogni lingua e cultura organizza il proprio lessico. Attraverso suffissi, prefissi, declinazioni, ogni linguaggio umano compone nuove parole partendo da una forma base. E' come giocare con i mattoncini del lego: montiamo, smontiamo e incastriamo tasselli linguistici continuamente secondo schemi di composizione ben precisi.
Molte lingue, tra cui l'Inglese, costruiscono nuove parole partendo dalla forma verbale, e questo, se ci soffermiamo a rifletterci, è meraviglioso. La vita è movimento e anche il linguaggio va di pari passo, partendo da ciò che esprime azione, il verbo appunto, per descrivere il resto del reale.
Fare, dis-fare, con-facente, nulla-facente, fatto, ante-fatto, è solo un esempio delle infinite possibilità che l'applicazione di queste semplici regole offre alla nostra necessità di comunicare.
Queste leggi sono economiche e funzionali, permetto cioé al cervello di generare un'infinità di vocaboli partendo semplicemente da un lemma o radice. Ma se stiamo un po' attenti, ciò che vale per il lessico, vale anche per la sintassi.
Proviamo infatti oggi a smontare una frase, e magari, così, anche un pregiudizio non molto utile (non lo sono mai in verità) alla nostra felicità:
può diventare, con minimo sforzo:
Le lettere usate sono le stesse, il loro numero è esattamente uguale, solo combinate in modo diverso. Ma l'effetto dentro di noi può essere molto, molto più salutare.
E visto che lo sforzo linguistico per produrle è lo stesso, sta solo a noi scegliere quale frase preferiamo come compagna della nostra giornata.
Molte lingue, tra cui l'Inglese, costruiscono nuove parole partendo dalla forma verbale, e questo, se ci soffermiamo a rifletterci, è meraviglioso. La vita è movimento e anche il linguaggio va di pari passo, partendo da ciò che esprime azione, il verbo appunto, per descrivere il resto del reale.
Fare, dis-fare, con-facente, nulla-facente, fatto, ante-fatto, è solo un esempio delle infinite possibilità che l'applicazione di queste semplici regole offre alla nostra necessità di comunicare.
Queste leggi sono economiche e funzionali, permetto cioé al cervello di generare un'infinità di vocaboli partendo semplicemente da un lemma o radice. Ma se stiamo un po' attenti, ciò che vale per il lessico, vale anche per la sintassi.
Proviamo infatti oggi a smontare una frase, e magari, così, anche un pregiudizio non molto utile (non lo sono mai in verità) alla nostra felicità:
è impossibile
può diventare, con minimo sforzo:
mi è possibile
Le lettere usate sono le stesse, il loro numero è esattamente uguale, solo combinate in modo diverso. Ma l'effetto dentro di noi può essere molto, molto più salutare.
E visto che lo sforzo linguistico per produrle è lo stesso, sta solo a noi scegliere quale frase preferiamo come compagna della nostra giornata.
martedì 11 settembre 2012
catalizzatore
Premetto che mi intendo poco di chimica e fisica, ma nella mia esperienza ho potuto più volte constatare che le leggi che regolano il funzionamento dell'universo in qualche modo si applicano anche all'uomo, non solo da un punto di vista puramente biologico, ma anche quando ci si sposta dalla fisiologia al campo delle relazioni interpersonali.
Esistono reciprocità, parallelismi, simmetrie tra il nostro funzionamento organico/biologico e il nostro muoverci e relazionarci con tutto ciò che ci circonda. Di fatto siamo un continuum energetico, ovvero siamo tutti interconnessi a diversi livelli, fisico, biologico, psichico ecc., per cui cosa siamo e come ci relazioniamo sul nostro bel pianeta influenza l'intero sistema vivente.
Su tale argomento, sono diversi gli esperimenti che dimostrano come noi possiamo influenzare o modificare ciò che ci sta attorno solo in base al nostro stato d'animo, i nostri pensieri, ecc. Ciò vale con gli altri esseri umani, come con gli animali, le piante, ma più in generale, è altrettanto vero nei confronti di ogni essere vivente (si vedano ad esempio gli studi sull'acqua condotti da M. Emoto per comprendere il rapporto che esiste tra l'acqua e l'uomo).
Allora, ragionando con la chimica e con la fisica, ho potuto comprendere meglio il tipo di relazione (o reazione) che ho vissuto con una persona che conosco.
Non è propriamente un amico - non ci conosciamo molto bene e non ci frequentiamo regolarmente, in pratica manca l'esperienza dell'amicizia - tuttavia è una persona che esercita in me, in modo inconsapevole, una certa gravità, una certa forza. Ho scambiato inizialmente tale "forza" per attrazione, ovvero mi sentivo attratta da lui, tanto da innamorarmene in pieno abbandono.
Credo che ciò capiti molto spesso, ci sentiamo attratti da qualcuno, scambiando per amore o passione qualcosa di diverso. Infatti tra me e lui sul piano affettivo non ha funzionato, pure continuo ad avvertire un qualche tipo di azione nei miei confronti, azione che lui esercita in modo assolutamente incosciente e anche da una certa lontananza geografica.
Solo analizzando la situazione con un po' di sano quanto faticoso distacco, ho compreso che in realtà questa persona funziona per me come un catalizzatore.
Esistono reciprocità, parallelismi, simmetrie tra il nostro funzionamento organico/biologico e il nostro muoverci e relazionarci con tutto ciò che ci circonda. Di fatto siamo un continuum energetico, ovvero siamo tutti interconnessi a diversi livelli, fisico, biologico, psichico ecc., per cui cosa siamo e come ci relazioniamo sul nostro bel pianeta influenza l'intero sistema vivente.
Su tale argomento, sono diversi gli esperimenti che dimostrano come noi possiamo influenzare o modificare ciò che ci sta attorno solo in base al nostro stato d'animo, i nostri pensieri, ecc. Ciò vale con gli altri esseri umani, come con gli animali, le piante, ma più in generale, è altrettanto vero nei confronti di ogni essere vivente (si vedano ad esempio gli studi sull'acqua condotti da M. Emoto per comprendere il rapporto che esiste tra l'acqua e l'uomo).
Allora, ragionando con la chimica e con la fisica, ho potuto comprendere meglio il tipo di relazione (o reazione) che ho vissuto con una persona che conosco.
Non è propriamente un amico - non ci conosciamo molto bene e non ci frequentiamo regolarmente, in pratica manca l'esperienza dell'amicizia - tuttavia è una persona che esercita in me, in modo inconsapevole, una certa gravità, una certa forza. Ho scambiato inizialmente tale "forza" per attrazione, ovvero mi sentivo attratta da lui, tanto da innamorarmene in pieno abbandono.
Credo che ciò capiti molto spesso, ci sentiamo attratti da qualcuno, scambiando per amore o passione qualcosa di diverso. Infatti tra me e lui sul piano affettivo non ha funzionato, pure continuo ad avvertire un qualche tipo di azione nei miei confronti, azione che lui esercita in modo assolutamente incosciente e anche da una certa lontananza geografica.
Solo analizzando la situazione con un po' di sano quanto faticoso distacco, ho compreso che in realtà questa persona funziona per me come un catalizzatore.
lunedì 10 settembre 2012
libri illustrati
Vi è mai capitato di entrare in una libreria e di soffermarvi tra gli scaffali dedicati ai libri di fotografia? Le immagini ci catturano, ci trasportano immediatamente in luoghi lontani, ci immergono in sguardi intensi. Sono storie per immagini, pezzi di vita, di relazione tra uomo e terra, insomma parlano di noi.
Poi forse a qualcuno di voi è capitato di andare nel reparto dedicato ai libri per l'infanzia e di cercare un albo illustrato. Da adulti succede quando si diventa genitori o amici di genitori, più raramente, ci capita di farlo per piacere personale. Ma se non avete né figli né nipoti, fa nulla. Fermatevi lo stesso la prossima volta che entrate in libreria per cercare l'ultimo bestseller da riporre sul comodino e prendetevi dieci minuti per sfogliare un libro per bambini.
Negli albi più belli, quelli che sfuggono ancora alla logica commerciale, le parole sono ben dosate, a volte disposte in modo inconsueto attorno alle illustrazioni che riempiono la pagina, strasbordano a volte dai margini e sembrano andarsene a spasso chissà dove.
Mio nipote, che ancora non sa leggere e non conosce la rigidità della coerenza, di un libro guarda le illustrazioni e mi chiede di leggere la storia che già c'è. Poi però mi racconta la "sua storia", nata sulle pagine del medesimo libro. Così di volta in volta mi regala nuove avventure (io invece non posso, io sono l'adulto, da me si pretende coerenza. Devo leggere la storia pari pari, guai a modificare una sola sillaba, o lui mi corregge).
Sono affascinata dalla fotografia come dalle illustrazioni. E dalle parole che entrambi non dicono.
Rivendico allora, come scrittrice, il desiderio di scrivere e illustrare libri per adulti. Rivendico la possibilità, come lettore, di lasciarmi affascinare dalle immagini, da un linguaggio simbolico che vada oltre il vocabolo, oltre il verbale. Voglio ascoltare con gli occhi.
Poi forse a qualcuno di voi è capitato di andare nel reparto dedicato ai libri per l'infanzia e di cercare un albo illustrato. Da adulti succede quando si diventa genitori o amici di genitori, più raramente, ci capita di farlo per piacere personale. Ma se non avete né figli né nipoti, fa nulla. Fermatevi lo stesso la prossima volta che entrate in libreria per cercare l'ultimo bestseller da riporre sul comodino e prendetevi dieci minuti per sfogliare un libro per bambini.
Negli albi più belli, quelli che sfuggono ancora alla logica commerciale, le parole sono ben dosate, a volte disposte in modo inconsueto attorno alle illustrazioni che riempiono la pagina, strasbordano a volte dai margini e sembrano andarsene a spasso chissà dove.
Mio nipote, che ancora non sa leggere e non conosce la rigidità della coerenza, di un libro guarda le illustrazioni e mi chiede di leggere la storia che già c'è. Poi però mi racconta la "sua storia", nata sulle pagine del medesimo libro. Così di volta in volta mi regala nuove avventure (io invece non posso, io sono l'adulto, da me si pretende coerenza. Devo leggere la storia pari pari, guai a modificare una sola sillaba, o lui mi corregge).
Sono affascinata dalla fotografia come dalle illustrazioni. E dalle parole che entrambi non dicono.
Rivendico allora, come scrittrice, il desiderio di scrivere e illustrare libri per adulti. Rivendico la possibilità, come lettore, di lasciarmi affascinare dalle immagini, da un linguaggio simbolico che vada oltre il vocabolo, oltre il verbale. Voglio ascoltare con gli occhi.
sabato 8 settembre 2012
movimento
I sassi, si sa,
stanno fermi.
A meno che non ci
sia qualcosa o qualcuno che li muova, loro non si spostano mai.
Se ne stanno
immobili là dove sono per tutto il tempo della loro vita.
E vivono a lungo,
molto a lungo.
Sono capaci di
esistere per centinaia e centinaia e centinaia di anni.
Sempre fermi. Guai a
spostarsi.
Non si fa, non è
nelle regole della vita dei sassi.
Ma Klippie era
diverso.
Era un sassolino
speciale.
Lui DESIDERAVA
muoversi…
Klippie viveva alle
pendici di una montagna,
insieme ai suoi
genitori, ai fratelli, alle zie e zii,
nonni e bisnonni,
cugini di terzo e quarto grado…
Una famiglia
numerosa, tutta ammassata ai piedi della montagna,
da cui erano scesi
tanti, tantissimi anni prima.
Un fulmine aveva
colpito proprio la cima e fatto ruzzolare a terra
una gran quantità
di massi e rocce: tutta la famiglia di Klippie.
Da lì non si erano
mai più mossi.
E per fortuna,
perché i sassi, una volta che li sposti,
vuoi per caso, vuoi
per intenzione,
difficilmente
tornano dov’erano,
per cui c’è il
rischio che un sasso che ruzzola
non riesca mai più
a rivedere la sua famiglia.
La famiglia di
Klippie era molto unita.
Vivevano tutti
insieme, immobili e fermi,
da più di
settecento anni.
Sopra di loro, c’era
la montagna,
rossa al tramonto e
scura di notte,
e il cielo, a volte
nuvoloso, a volte pieno d luce.
Sotto di loro, prati
e arbusti e in fondo
in fondo, giù nella
valle, un torrente.
Questo era tutto
quello che potevano vedere dalla loro posizione.
Ed era così ogni
giorno, da più di settecento anni.
Conducevano una vita
tranquilla, senza scosse o ruzzoloni.
mercoledì 5 settembre 2012
la cattedrale 2
(continua dal post: La cattedrale)
E
diede la mano a Dominique in segno di presentazione ufficiale. I due
si strinsero la mano, poi Dominique scrisse, E come si fa a
dimenticarsi delle parole?
Una
parola viene dimenticata quando nessuno più la pensa, rispose il
vecchio alzando le spalle.
Dominique,
E perché le liberi?
Giona,
Beh, fa parte del mio programma di salvaguardia delle parole
dimenticate. Funziona così: prima costruisco un aquilone, ci scrivo
sopra una parola dimenticata e poi lo lascio andare, così se
qualcuno lo raccoglierà, vedendo la parola, la pronuncerà e forse
riuscirà a ricordarne il significato. Se torna ad essere usata,
allora non sarà più una parola dimenticata.
E
indicandogli gli scatoloni gli chiese, Vuoi vederne qualcuna?
Dominique
fece segno di sì con la testa e si avvicinò a uno scatolone già
aperto.
Che
ne dici di questa?, chiese il vecchio mostrandogli la parola che
aveva appena preso. STUPORE.
Gli
occhi del bambino si spalancarono di colpo e il suo viso si illuminò.
Gli
piace, pensò il vecchio.
Poi
fu Dominique a prendere una parola dallo scatolone. LETIZIA.
Tenendola con tutte e due le mani, se l’appoggiò sul volto, chiuse
gli occhi e respirò forte.
Anche
questa gli piace, notò Giona.
Poi
uscirono di colpo le parole BENEDIZIONE, PROTETTO, LODE. Giona vide
che Dominique guardava quei vocaboli estasiato. Sembrava che ne
conoscesse perfettamente il significato. Eppure erano parole che
nessuno pronunciava più da tanto tempo, impossibile che un bambino
le potesse conoscere, a meno che...
Il
vecchio stette ad osservare il bambino mentre continuava a prendere
parole a caso dallo scatolone. Ogni volta sul suo volto si dipingeva
un’espressione di meraviglia e gioia inaspettata.
Allora
Giona si sedette alla finestra e fece cenno a Dominique di
raggiungerlo. Il cielo in quel momento aveva addosso i colori
dell’arcobaleno.
Sai
che cosa provo ogni volta che vedo un arcobaleno?, chiese il vecchio.
Stupore,
disse subito Dominique, come se quella fosse l’unica risposta
possibile. E subito si mise le mani davanti alla bocca per la
sorpresa. Aveva parlato! Sì, aveva parlato, quella era la sua voce,
uscita dritta dritta dalla gola! Era incredibile.
Allora
ho ragione!, gridò saltellando dalla gioia Giona. Sì, ho ragione!
Tu non sei muto!
Dominique
era altrettanto eccitato, ma anche confuso e spaventato. Lui era
muto, e quella era la prima volta che riusciva a parlare.
La
cosa gli faceva un effetto davvero strano.
Provò
ancora, questa volta lentamente, scandendo bene le sillabe.
Stu-po-re. Sì, ci era riuscito di nuovo.
Provane
un’altra, lo incoraggiò il vecchio.
Gra-gra-gratitudine,
disse a voce alta Dominique, ancora stupito.
Sì!
Molto bene!, lo incitò Giona.
Lodeprotettobenedizione,
disse tutto d’un fiato il bambino.
Più
forte, fece Giona.
LODEPROTETTOBENEDIZIONE,
gridò Dominique euforico, mettendosi a correre e saltellare per la
stanza insieme al vecchio.
Poi
di colpo si fermò e con gli occhi ancora sgranati dalla meraviglia
guardò il vecchio in cerca di una spiegazione. Lui era sempre stato
muto, come era possibile che ora riuscisse a parlare fluidamente,
senza alcun impedimento?
Giona
allora lo fece sedere per fargli riprendere fiato, gli accarezzò la
fronte e gli chiese, Lo sai da dove vengono le parole?
Dominique
indicò la porta, come a dire, Da qui, dalla fabbrica.
Giona
riprese, Oh, qui si fabbricano le parole che servono per parlare con
la testa, ma c’è un luogo, segretissimo e nascosto, dove le parole
non vengono fabbricate, ma nascono e vivono per sempre. Sono parole
diverse, che solo un orecchio molto attento può riuscire ad
ascoltare, perché non sono parole per la mente, ma per lo spirito. E
tu le conosci!
Dominique
tornò a prendere carta e matita, Tu hai preso queste parole da lì,
dal luogo segretissimo?
Giona
fece cenno di sì col capo, poi riprese a parlare. Questi scatoloni
contengono solo le parole che io ho saputo ascoltare, ma in quel
luogo segretissimo e nascosto ce ne sono molte altre. Quasi nessuno
pronuncia più queste parole, perché sono tutti troppo presi a fare
dell’altro. Così sono pochissimi coloro che ancora riescono ad
accedere a quel luogo segretissimo, dove ci sono i pensieri veri e i
movimenti per far nascere le parole vive.
Dominique
corrugò la fronte e scrisse, Pensieri veri? Movimenti? Cosa vuoi
dire?
Giona
spiegò, Ci vuole un pensiero vero per far nascere una parola
speciale e ci vuole un movimento per farla vivere. È come per
l’aquilone, ci vuole una mano per costruirlo, ma non è
sufficiente, serve il vento per farlo volare.
Dominique
fece un cenno col capo, come a dire, Ho capito.
Giona
continuò, Tu non sei muto Dominique, ti mancano solo le parole,
perché quelle della fabbrica non vanno bene per esprimere quello che
ascolti dentro di te.
Dominique
lo guardò confuso.
Non
mi credi? Prova a leggere questa allora. Giona scrisse una parola su
un pezzo di carta.
Dominique
guardò la parola a lungo. Poi la restituì in silenzio al vecchio.
POSSESSO
non è una parola che riesci a sentire dentro di te, vero?, chiese
Giona, appallottolando il pezzo di carta e buttandolo in un cestino.
Dominique fece cenno di no con il capo.
Già,
me lo immaginavo, rispose Giona. Ma questa sono sicuro che riesci a
pronunciarla... E pescò dallo scatolone un’altra parola.
DONO,
disse serenamente Dominique, come se la voce gli fosse uscita da
sola, senza nemmeno doverci pensare.
Giona
sorrise.
Dominique
rimase in silenzio per un poco. Pensava a cose lontane e intanto
scarabocchiava con la matita su un foglio. Erano disegni senza capo
né coda, segni indecifrabili privi di forma o espressione. Molti
bambini disegnano così, e non per imperizia o arte acerba, ma perché
il loro sguardo va e viene come un’onda, non ha confini, perciò
non sanno mettere i contorni alle cose.
Poi
prese un foglio pulito e ci scrisse sopra a lettere grandi,
maiuscole, in bell’ordine. La grafia sostituiva così il tono della
voce che gli mancava per dare serietà al discorso.
Insegnami
la strada, fu la richiesta, scritta, formale, solenne. E non era cosa
da poco, perché chiedere la strada è sempre un atto di abbandono e
di coraggio insieme. Ammettere lo smarrimento, chiedere aiuto,
fidarsi, non è una formula matematica, che torna sempre, ma tuffo
nel vuoto, luogo turbolento, senza appigli né peso. Si deve
innanzitutto lasciare il certo per l’incerto e già qui è
difficile, l’uomo preferisce qualsiasi cosa, persino la sofferenza,
all’ignoto. Poi va accettata indicazione, che è atto di fiducia in
se stessi e nell’altro, perché se anche la direzione per la meta è
certa, spesso dubitiamo di poterla raggiungere.
Ma
Dominique sebbene muto, dentro aveva le sue parole, forti e
spensierate da bambino, per cui non mise punti di domanda alla sua
richiesta. Non aveva dubbi, si fidava.
Giona
si stropicciò i capelli con le mani, pensieroso. Poi si mise a
rovistare negli scatoloni che erano ancora chiusi. Dominique lo
guardava paziente. Il vecchio stava cercando le parole giuste,
prendeva dunque con altrettanta serietà il compito affidatogli. Se
lo avesse scritto, avrebbe usato lo stampatello, preciso, ordinato,
DAMMI TEMPO, È UNA COSA SERIA.
Eccola,
disse infine, sollevando la testa e guardando soddisfatto la parola
che teneva in mano.
Poi
si rivolse a Dominique, La verità, ragazzo, è che il luogo
segretissimo e nascosto è diverso per ognuno di noi. Quindi non
posso indicarti la strada, perché il mio luogo è unico e vale solo
per me. Però posso aiutarti a trovare il tuo.
E
a quel punto gli diede la parola che aveva preso dallo scatolone.
Poi
disse, Prendi, portala con te, funzionerà come una calamita. Quando
sarai vicino al luogo segretissimo e nascosto, lei comincerà a
vibrare, perché le parole vive sono attratte dalla sorgente. Allora
seguila fino a quando non sarai arrivato.
Dominique
prese la parola dalle mani del vecchio e la tenne tra le dita
sussurrandone il nome.
Giona
lo zittì immediatamente. No, chiamala quando sarai da solo, in un
luogo appartato, allora lei ti riconoscerà e ti diventerà amica.
Poi
gli diede un pezzo di spago e disse, Tieni questo, potrebbe servirti.
E ricorda, quando sarai arrivato, non aver paura, ma ascolta. Se
avrai pazienza, andrà tutto bene.
Dominique
prese lo spago, poi abbracciò Giona e uscì. Fuori era tornato il
sereno. Decise di andare subito a cercare il suo luogo segretissimo e
nascosto. Aveva già otto anni e non c’era ancora mai stato! Per
prima cosa pensò da dove avrebbe potuto cominciare la ricerca. Il
luogo segretissimo e nascosto poteva essere ovunque, gli aveva detto
Giona, perché dipendeva da quello che gli piaceva. Dominique pensò
ai posti dove gli piaceva andare e per prima cosa andò al parco. Ma
la parola non sembrò affatto attratta da quel posto di alberi e
giochi. Poi passò davanti al negozio di giocattoli, alla piscina, al
reparto dolci del supermercato, ma la parola non vibrò nemmeno per
un momento. Il vecchio gli aveva detto che non sarebbe stato facile,
e Dominique non si scoraggiò. Sono posti troppo rumorosi, si disse,
non riuscirei ad ascoltare nulla, meglio cercare qualcosa di più
tranquillo.
Allora
andò in una chiesa, pensando che la religione l’avrebbe aiutato,
poi in un museo, pensando che l’arte l’avrebbe aiutato, andò
infine in una biblioteca, pensando che la cultura l’avrebbe
aiutato, ma in nessuno di questi luoghi la parola si mise a vibrare.
Era
ormai sera quando Dominique si sedette su una panchina. Non gli erano
rimasti molti luoghi in città dove andare a cercare. Chiuse gli
occhi e sussurrò la parola che gli aveva dato Giona. Aveva un bel
suono. Capì in quell’istante che la città non andava bene, il suo
luogo segretissimo non poteva essere là dove lui non riusciva a
parlare. Doveva cercare altrove, ma dove?
Si
sa che le parole con cui parliamo dentro a noi stessi sono molto più
potenti di quelle che pronunciamo a voce alta, esse infatti non si
disperdono al vento ma restano nella corteccia del nostro corpo e
mettono radici. E infatti Dominique disse a se stesso, risoluto come
solo i bambini sanno essere, Andrò verso il tramonto.
E
alzatosi, prese a camminare verso il sole.
Camminò
a lungo, perché il sole ha il vizio di andare sempre oltre. Ma a
Dominique piaceva andare verso tutto quel rosso e quel porpora, gli
metteva allegria. Prese così una stradina che si snodava tra le
ultime case della città. Una staccionata tracciava i confini con la
campagna circostante, e Dominique la superò immergendosi sempre più
nei rumori e bisbigli dei prati in estate. Non si ricordava di essere
mai stato da quelle parti, ma il sole era lì, dritto davanti a lui,
perciò continuò a camminare.
Poi,
all’improvviso, sentì che nella tasca dei pantaloni la parola si
stava muovendo.
Allora
la prese in mano con cautela e la guardò. Sfarfallava come una
libellula. Per non perderla, la legò ad una estremità dello spago
che gli aveva dato il vecchio Giona, poi aprì la mano e la lasciò
volare, tenendola per l’altro capo della corda come fosse un
aquilone.
La
stradina cominciò a salire tra prati d’erba alta. Su tutto passava
un vento, leggero e fresco, spandendo i profumi dell’estate.
Dominique
attraversò così un grande prato, poi un boschetto e un piccolo
torrente, sempre inseguendo la sua parola. E vide, a un certo punto,
nella penombra degli alberi, tronchi che non sembravano semplici
tronchi, e rami che non sembravano semplici rami. Avevano una forma
strana, come se qualcuno li avesse piantati in ordine per formare
colonne. Gli alberi così disposti andavano a formare navate e si
chiudevano in archi a sesto acuto che si stagliavano in cielo.
Incuriosito,
Dominique si avvicinò e guardò con più attenzione. Davanti a lui
si ergeva una cattedrale, e non fatta di assi di legno e mattoni, ma
di alberi vivi, coi rami coperti di foglie e la linfa nelle radici,
lastricata d’erba invece di marmo e con il cielo a fare da volta
affrescata. Era uno spettacolo straordinario.
Non
aveva dubbi, era arrivato al suo luogo segretissimo e nascosto. Ed
era davvero un gran bel luogo, notò compiaciuto. Nessun architetto
avrebbe mai potuto costruire qualcosa di altrettanto bello, solenne e
accogliente.
Camminando
tra le colonne d’albero, sotto l’arco della luna che cominciava
ad affiorare, Dominique ammirava stupito quella costruzione naturale
e ascoltava il vento che suonava una musica senza strumenti, fatta di
carezze e bisbigli, sussurrata in punta di labbra alle foglie. Si
sentì protetto e al sicuro.
Ad
un certo punto si accorse che al centro della navata centrale c’era
un tronco scavato a sedia, opera di chissà quale mano. Era consumato
dai tarli, come se fosse rimasto lì a lungo, sotto qualsiasi tempo e
qualsiasi sole. Sembrava il trono per un re semplice.
Dominique
si avvicinò e notò con sorpresa che sul trono c’era un biglietto
con su scritto “Siediti”. Proprio in quell’istante, la parola
che aveva tenuto legata fino a quel momento, si avvicinò al trono ed
esplose in un piccolo fiocco di luce. Dominique era molto stupito.
Come poteva essere che quel trono fosse lì per lui? Si guardò
attorno, per vedere se c’era qualcuno, ma il luogo era deserto.
Giona gli aveva detto che il luogo segretissimo e nascosto è unico
per ogni persona e lui non aveva dubbi, quello era il suo. Allora,
facendo un bel respiro carico di desideri, si sedette sul tronco
tagliato a trono. Sapeva di resina e di parole belle, quelle che lui
stava cercando da sempre.
Resto
lì seduto ad ascoltare, come gli aveva detto il vecchio Giona,
familiarizzando con i rumori di quel luogo fino a quando non cominciò
a sentirne i pensieri. Stavano nascosti tra le foglie e sotto le
radici degli alberi e bisbigliavano, come fanno i bambini quando
confidano segreti.
Il
vento cominciò a sollevarli verso l’alto, oltre la volta della
cattedrale. Li faceva girare intorno e poi ricadere giù, a volte
veloce a volte piano. Creava i movimenti, come aveva detto Giona, per
dar vita alle parole.
Dominique
si domandò quanto tempo ci sarebbe voluto. Chissà se per nascere le
parole erano come i girini che spuntavano in una sera o se
impiegavano lo stesso tempo dei gatti o dei bambini. L’idea di
aspettare così tanto gli fece venire il solletico. Aveva un gran
voglia di rincorrere i pensieri invece di star fermo lì seduto, ma
ricordandosi della parole del vecchio, attese paziente che le parole
nascessero.
Lì
non era come in fabbrica, dove ogni giorno si costruivano parole da
usare e consumare in fretta. Le parole segrete e nascoste erano
grandi, eterne, per cui ci voleva più tempo perché nascessero.
Servivano pensieri forti come le querce, e tanto, tanto vento per
sollevarli e muoverli.
Dominique
attese a lungo, fino a quando l’estate se ne andò, cielo si fece
pallido e i rami si spogliarono lasciando cadere a terra le foglie.
Allora il vento sollevò i pensieri molto in alto, li addensò in
nubi e tutto si fece freddo e silenzioso.
Poi,
piano piano, dal cielo cominciarono a cadere piccoli fiocchi bianchi.
Erano le parole bambine.
Dominique
aprì le mani per accoglierle. Presto tutto fu bianco.
Quel
giorno Dominique cantò con tutta la sua voce il suo grazie. Quel
giorno era Natale.
la cattedrale
Le parole che ci diciamo dentro, quelle che ci sussurriamo di continuo, anche quando non ne siamo consapevoli, costruiscono, scavano, riempiono, svuotano il nostro paesaggio interiore. Possiamo, con le parole perderci in labirinti di sofferenza, lanciarci nel vuoto dell'ignoto con il sorriso in mano, erigere roccaforti di pregiudizi, costruire ponti di gioia.
Questo racconto, tratto dal mio libro "Sette Passi", nasce dopo essere stata, quasi per caso, in Val di Sella, dove in un luogo quasi nascosto natura e arte si compenetrano dando vita a un dialogo silenzioso quanto rasserenante.
Questo racconto, tratto dal mio libro "Sette Passi", nasce dopo essere stata, quasi per caso, in Val di Sella, dove in un luogo quasi nascosto natura e arte si compenetrano dando vita a un dialogo silenzioso quanto rasserenante.
LA
CATTEDRALE
Questa
storia comincia un pomeriggio d’agosto, durante uno di quei forti
temporali estivi in cui pare che il cielo crolli di colpo trascinando
a terra metà delle fondamenta del paradiso. Allora onde di polvere e
foglie vengono sollevate da terra dal vento e tutto intorno si fa
buio grosso.
Niente
di strano, un temporale è accidente abbastanza comune in estate, e
se spaventa i più sensibili di cuore con la sua prepotenza, è pur
vero che si esaurisce presto e tutto torna come prima, ma più
limpido, con una luce che pulisce gli occhi.
Ma
andiamo con ordine.
C’era
in paese una fabbrica molto importante, la fabbrica delle parole,
dove ogni giorno si producevano vocaboli come ar-chi-tet-to,
mar-ghe-ri-ta, sa-la-man-dra, be-ne-stan-te, ca-pri-cio-so,
ri-fran-gen-te, sa-la-man-dra, com-mis-sa-rio e così via. Centinaia
di migliaia di parole e modi di dire per stupire, conquistare,
affascinare, far ridere o piangere, costruire consensi, governare
società, inventare verità, insomma dare forma a quel caos che è la
realtà, che altrimenti non si saprebbe come controllarla. L’umanità
intera stava vivendo nell’era della comunicazione e mai come allora
si consumavano così tanti vocaboli ogni giorno. Un flusso costante
di parole correva veloce per ogni angolo del mondo, che era diventato
un enorme mercato di parole. C’era chi si arricchiva vendendo
segni, significati e, sopratutto, traduzioni e interpretazioni.
In
fabbrica si lavorava giorno e notte, perché le parole servivano
sempre, che fosse bello o brutto tempo, caldo o freddo, domenica
mattina o venerdì sera, e pure di notte, per poter parlare nei sogni
e svegliarsi dagli incubi.
Nella
fabbrica c’erano vari reparti, ciascuno specializzato nel
vocabolario da usare in un determinato contesto. Per esempio c’era
il reparto per la pesca sportiva, quello per i gusti di gelato,
quello per la medicina, quello per le democrazie, quello per le
guerre e quello per la pace. Alcuni reparti erano piccoli, perché
c’era poco da dire, come il reparto per le parole dei bimbi di meno
di un anno, lì c’era solo qualche vocale traballante sparpagliata
in un mare di gorgoglii informi, mentre altri erano molto grandi e
indaffaratissimi, come il reparto della politica, per esempio, o
quelli dello spettacolo e della tecnologia. C’era anche il reparto
import-export, dove si confezionavano le parole straniere per parlare
in altre lingue, e il reparto della parole d’antiquariato, cioè
quelle fuori moda o in disuso, come torneamento, vossignoria,
soprasberga, donzelletta.
Quel
pomeriggio, dunque, un violento temporale si era abbattuto sul paese,
e la gente, presa di soprassalto, si era rifugiata dove poteva, chi
sotto i ponti, chi negli uffici postali, chi nei bar, un caffè
macchiato caldo e non ha per caso un asciugamano da darmi che sono
tutto fradicio, ma certo, tenga, come lo voleva il caffè, macchiato
ha detto? Sì, e caldo, grazie, che tempaccio là fuori, eh sì, non
me ne parli, un muro d’acqua.
Quelli
che avevano finito il turno in fabbrica erano rimasti all’ingresso
ad aspettare che passasse la bufera, neanche i lupi sarebbero usciti
dalla tana con un tempo come quello, e intanto si scambiavano quattro
parole, letteralmente parlando, proprio come con le figurine, questa
ce l’ho, anche questa, questa mi manca, te la dò in cambio di due
parole di fantascienza, e così via.
C’era
anche un bambino che aspettava che suo padre finisse di lavorare per
tornare a casa. Era agosto, le scuole erano chiuse, i nonni in
vacanza, la babysitter pure, come si fa? E così Dominique, questo il
nome del bimbo, passava un giorno in ufficio con il papà e uno con
la mamma, e principalmente si annoiava sia da una parte che
dall’altra, perché nessuno gli dava retta un granché, fermi
com’erano dietro le loro scrivanie. Solo che il temporale gli
faceva paura, ma di quelle buie, da scappare via senza voltarsi più
indietro, perciò, al terzo o quarto rombo di tuono, Dominique si
mise a correre per i corridoi in cerca di un posticino sicuro dove
nascondersi. Passando di porta in porta, leggeva i nomi dei vari
reparti. Scienze diplomatiche internazionali, no, non andava bene,
Neuropsichiatria infantile, nemmeno, Vulcanologia applicata... Non ce
n’era uno che lo rassicurasse, qualcosa che ricordasse vagamente la
sensazione del rifugio. Chi mai poteva sentirsi sicuro tra vulcani e
terremoti? Alla fine però trovò una porta su cui non c’era
scritto niente. Senza pensarci su due volte, entrò.
Si
ritrovò in una stanza doveva essere uno vecchio magazzino
abbandonato. Dominique cominciò a guardarsi intorno, passando tra
scaffali ormai vuoti, quando all’improvviso vide, seduto alla
finestra, un vecchietto che lanciava... un aquilone.
Se
in quel momento qualcun altro fosse stato presente nella stanza, di
certo non avrebbe saputo dire chi dei due fosse più sorpreso, se il
vecchio scoperto a fare giochi da bambini, o il bambino scoperto a
stare in un luogo dove non avrebbe dovuto essere.
Fu
comunque il vecchio a parlare per primo.
Ciao
come ti chiami?, chiese scendendo dalla finestra e rimettendo in
ordine l’aquilone, ma Dominique, invece di rispondere, si nascose
dietro uno scaffale.
Spaventato
dal temporale?, continuò il vecchio, per nulla stupito della
reazione del bambino. Non ti preoccupare, non durerà ancora a lungo.
Vieni, siediti, non aver paura.
Dominique
si vide offrire una sedia e un bicchiere di latte. Si guardò
intorno. C’era un letto in un angolo e una poltrona con una pila di
libri sopra, una cassapanca e diversi scatoloni sparsi qua e là, per
lo più ancora chiusi. Dunque quello non era solo un vecchio
magazzino abbandonato, ma anche l’abitazione di quel signore. Che
fosse il custode? Non aveva mai saputo che la fabbrica ne avesse uno.
Ti
piacciono gli aquiloni?, domandò il vecchio.
Dominique
non rispose. Silenzio. Nemmeno mezza parola.
Il
vecchio sospirò. Gli sarebbe piaciuto un po’ di conversazione, non
veniva a trovarlo molta gente là dentro, tuttavia non insistette.
L’amicizia è una una faccenda complessa, meglio se parte lenta,
senza fretta.
Sul
tavolo c’erano dei fogli e delle matite. Dominique ne prese uno e
vi scrisse sopra qualcosa, poi lo diede al vecchio.
Il
foglio diceva, MI CHIAMO DOMINIQUE, SONO MUTO.
Il
vecchio ne fu sorpreso, non se lo aspettava. Nell’era della
comunicazione, all’interno della fabbrica delle parole, essere muto
era davvero un controsenso straordinario. Rimase in silenzio per un
poco a osservare le parole che il bambino aveva scritto sulla carta.
Erano in azzurro e sul bianco sembravano righe di cielo sereno sopra
le nuvole. Allora prese a sua volta una matita e scrisse sul foglio
BENVENUTO DOMINIQUE, IO SONO GIONA, e lo diede al bambino.
Dominique
sorrise. Sul foglio c’era un sole. Il vecchio aveva scritto le
parole in cerchio con il giallo.
La
conversazione andò più o meno avanti così, a colpi di matite
colorate su fogli di carta.
Dominique,
Fai volare gli aquiloni?
Giona,
Non esattamente.
Dominique,
E cosa allora?
Giona,
Li libero.
Dominique,
E perché?
Pausa.
Giona,
Giuri di non dirlo a nessuno?
Dominique,
Giuro.
Giona,
Sono un contrabbandiere.
Dominique,
sgranò gli occhi. Un contrabbandiere di aquiloni?
Giona,
No, di parole.
Dominique
a quel punto fu particolarmente sorpreso. Stette a pensare un poco,
perplesso, poi scrisse, Che tipo di parole?
Giona,
Parole dimenticate.
Dominique,
Come sarebbe dimenticate?
Giona
a quel punto abbandonò carta e matita e iniziò a parlare, Questo
che vedi è il reparto delle parole dimenticate, l’ho inventato io
stesso.
(continua nel post: CATTEDRALE 2)
mercy
Sempre sul concetto di vulnerabilità e sulla necessità di essere aperti verso il nuovo imprevisto, spesso non desiderato, ho scritto questa breve storia. Mercy, misericordia, è ciò che ci fa superare i momenti difficili, ritrovare leggerezza di passo, scoprire nuovi orizzonti.
IL
VOLO
Cris
non riusciva più a volare.
Un
giorno tanta pioggia e lampi e tuoni erano caduti sulla terra
e
dentro il cuore di Cris
un'ala
si era spezzata sotto il peso della paura.
A
terra non poteva andare.
Aveva
pensieri troppo leggeri per riuscire a camminare.
Così
viveva tra i rami degli alberi.
senza
correre né spiccare il volo.
Qualche
volta l'ala spezzata gli faceva male.
Succedeva
quando era brutto tempo.
Allora
Cris chiudeva gli occhi
e
cominciava a sognare.
Sognava
il sole e le nuvole bianche,
profumo
di briciole ed erba di notte.
Un
giorno che guardava il mondo dal suo ramo,
a
metà strada tra cielo e terra,
vide
Mercy, che cercava di arrampicarsi sugli alberi.
Mercy
provava e cadeva,
riprovava
e cadeva, e rideva e piangeva,
perché
imparare è divertente ma fa anche un po' male.
Qualcosa
va perso e altro va trovato.
Com'è
vivere su in cielo?, chiese Mercy a Cris,
che
la guardava incuriosito.
Come
stare in un respiro, rispose Cris.
Com'è
vivere sulla terra?, chiese allora Cris.
Come
stare su una pancia, rispose Mercy.
Rimasero
a guardarsi per un po'
Cris
a testa in giù, Mercy a testa in su.
E
fa male?, chiese Cris.
Qualche
volta sì, ammise Mercy.
Quando
hai paura, allora fa male.
Poi
Mercy si arrampicò su un ramo,
e
così facendo delle foglie caddero a terra.
Mercy
le guardò e disse,
Il
respiro sta nella pancia.
Si
è felici laggiù, sulla pancia?, chiese Cris.
La
felicità è come un aquilone, rispose Mercy.
Con
esso catturi un soffio di vento e per un attimo voli.
Cris
mosse l'ala buona.
Si
ricordava com'era volare.
Sì,
forse si poteva essere felici sulla pancia, per davvero.
Mi
piacerebbe respirare sulla pancia, disse Cris allora.
Se
vuoi vengo con te, rispose Mercy.
Davvero?,
chiese Cris.
Promesso.
Rispose Mercy.
Che
cos'è una promessa?, chiese a quel punto Cris,
a
cui l'ala spezzata faceva ora un po' male.
Una
promessa è come quando due torrenti si incontrano e si separano.
Poi,
al momento buono,
i due torrenti si uniscono di nuovo e si mescolano in mare.
Allora
la promessa è compiuta.
Sembra
una cosa molto grande, disse Cris che pensava all'oceano.
Sì,
davvero, rispose Mercy. Ma è anche molto semplice, aggiunse.
Con
un balzo fu a terra e allungò la mano verso Cris.
Il
primo passo è come un tuffo, gli disse.
Il
rumore delle onde che si infrangono sulla terra fa un po' paura,
ma
poi, dentro il mare, tutto si rimescola e scorre.
L'acqua
è come il respiro nella pancia, come il vento.
Cris
fece un salto e i piedi toccarono l'erba
per
la prima volta.
Cris
avvicinò il volto alla terra e disse:
Sento
il mare.
Che
fa? Chiese Mercy.
Respira,
rispose Cris.
Andiamo
a cercare un aquilone, disse Mercy.
martedì 4 settembre 2012
vulnerabilità
Le parole non sono semplici segni linguistici, contenuti di significato. Le parole a volte sono indici puntati su una realtà, compassi conficcati in un punto ben definito della nostra esperienza, mattoni della nostra struttura mentale. Ultimamente sto sperimentando sulla mia pelle alcune di queste parole e ho cercato di metterle in ordine, guardarle, capirle più a fondo.
Fragile. Fragile è ciò che può essere rotto, infranto, spezzato. Implica quindi la qualità intrinseca di un oggetto, di perdere la sua struttura, la sua forma a seguito di un urto, una caduta, un colpo subito. Non sempre, una volta rotto, l'oggeto può essere aggiustato.
Strong. Forte è ciò che è robusto, fermo, saldo. Sembra, apparentemente, il contrario di fragile. Ma anche ciò che è dotato di forza può rompersi. Spesso infatti ciò che è robusto, ma rigido. Non esiste nulla che non possa rompersi se sottoposto a forze e sollecitazione adeguate. Spesso ci sentiamo fragili per diversi motivi, e cerchiamo di combattere questa sensazione, neutralizzarla con quello che crediamo essere il suo opposto. Cerchiamo allora di essere forti, ma la fragilità resta, solo diventa più latente, nascosta.
Vulnerability. Vulnerabilità indica la possibilità di poter essere ferito fisicamente, emotivamente, o psicologicamente. Indica potenzialità, non certezza. E' un'accezione diversa dalla fragilità. Ciò che è vulnerabile può essere ferito, ma non infranto. Ciò che può rompersi va protetto, coperto, richiede un intervento preventivo, invece ciò che può essere ferito ha bisogno piuttosto di una cura, un rimedio a posteriori. Per me questa è una differenza fondamentale. Come afferma B. Brown, essere vulnerabili è segno di coraggio e compassione. Significa saper guardare alla nostra imperfezione con sorriso e accettazione. Accettare la nostra natura ci permette di superare le nostre paure, di abbandonare le nostre protezioni emotive e psicologiche per vivere in modo più vero e autentico e ci permette di essere più empatici nei confronti degli altri. Se tutti noi facessimo un passo per abbattere il muro che ha forza abbiamo costruito intorno a noi per paura che qualcuno possa vedere la nostra fragilità, potremmo vivere con maggiore serenità la realtà: siamo tutti vulnerabili.
Resilience. Resilienza è una parola poco presente nel nostro vocabolario comune. Ma come dicevo all'inizio di questo post, le parole possono dare forma alla nostra esperienza, quindi non usare mai, o raramente, certi vocaboli può avere degli effetti di un certo tipo sulla nostra vita. Resilienza è un termine che, a seconda dei contesti, può assumere diverse sfumature, fondamentalmente indica la capacità di un materiale o di un organismo (incluso l'essere umano) di resistere a urti senza spezzarsi, di ripristinare la propria condizione di equilibrio a seguito di un intervento esterno che ne ha minacciato la stabilità. Indica flessibilità, adattamento attivo.
Essere fragili è un'illusione, ci costringe a diventare forti, protettivi, e quindi rigidi, poco flessibili. Si può invece accettare di essere vulnerabili e imparare a essere resilienti, morbidi e rilassati.
(a.t.)
Fragile. Fragile è ciò che può essere rotto, infranto, spezzato. Implica quindi la qualità intrinseca di un oggetto, di perdere la sua struttura, la sua forma a seguito di un urto, una caduta, un colpo subito. Non sempre, una volta rotto, l'oggeto può essere aggiustato.
Strong. Forte è ciò che è robusto, fermo, saldo. Sembra, apparentemente, il contrario di fragile. Ma anche ciò che è dotato di forza può rompersi. Spesso infatti ciò che è robusto, ma rigido. Non esiste nulla che non possa rompersi se sottoposto a forze e sollecitazione adeguate. Spesso ci sentiamo fragili per diversi motivi, e cerchiamo di combattere questa sensazione, neutralizzarla con quello che crediamo essere il suo opposto. Cerchiamo allora di essere forti, ma la fragilità resta, solo diventa più latente, nascosta.
Vulnerability. Vulnerabilità indica la possibilità di poter essere ferito fisicamente, emotivamente, o psicologicamente. Indica potenzialità, non certezza. E' un'accezione diversa dalla fragilità. Ciò che è vulnerabile può essere ferito, ma non infranto. Ciò che può rompersi va protetto, coperto, richiede un intervento preventivo, invece ciò che può essere ferito ha bisogno piuttosto di una cura, un rimedio a posteriori. Per me questa è una differenza fondamentale. Come afferma B. Brown, essere vulnerabili è segno di coraggio e compassione. Significa saper guardare alla nostra imperfezione con sorriso e accettazione. Accettare la nostra natura ci permette di superare le nostre paure, di abbandonare le nostre protezioni emotive e psicologiche per vivere in modo più vero e autentico e ci permette di essere più empatici nei confronti degli altri. Se tutti noi facessimo un passo per abbattere il muro che ha forza abbiamo costruito intorno a noi per paura che qualcuno possa vedere la nostra fragilità, potremmo vivere con maggiore serenità la realtà: siamo tutti vulnerabili.
Resilience. Resilienza è una parola poco presente nel nostro vocabolario comune. Ma come dicevo all'inizio di questo post, le parole possono dare forma alla nostra esperienza, quindi non usare mai, o raramente, certi vocaboli può avere degli effetti di un certo tipo sulla nostra vita. Resilienza è un termine che, a seconda dei contesti, può assumere diverse sfumature, fondamentalmente indica la capacità di un materiale o di un organismo (incluso l'essere umano) di resistere a urti senza spezzarsi, di ripristinare la propria condizione di equilibrio a seguito di un intervento esterno che ne ha minacciato la stabilità. Indica flessibilità, adattamento attivo.
Essere fragili è un'illusione, ci costringe a diventare forti, protettivi, e quindi rigidi, poco flessibili. Si può invece accettare di essere vulnerabili e imparare a essere resilienti, morbidi e rilassati.
(a.t.)
lunedì 3 settembre 2012
scrivere...
Scrivere per me è fare archeologia. Sto sui
tasti, scavo in punta di dita per estrarre qualcosa che già c'è. A mano a
mano che procedo, ascolto, occorre eliminare ciò che non appartiene,
per non deviare, disperdere. Alle parole infatti non serve abbondanza,
ma rispetto al significato che portano.
La parola è alimento. Un cibo che ha sostanza, sazia con poco. Il resto è illusione di nutrimento.
Il morbido, il raffinato, scivola senza fatica, invece il duro, il secco fa suono sotto i denti, richiede masticazione e tempo per meditarci sopra. Per questo scrivo scarno, scrivo stretto.
Questo blog gira intorno alla scrittura, all'esperienza, alla realtà. Un viaggio, o un vagabondaggio, lungo quel che scorre in questo strano gioco che si chiama vita. Racconti, pezzi di storie vissute fuori e dentro la pelle. Perchè in fondo, non esistono confini, non esistono misure.
La parola è alimento. Un cibo che ha sostanza, sazia con poco. Il resto è illusione di nutrimento.
Il morbido, il raffinato, scivola senza fatica, invece il duro, il secco fa suono sotto i denti, richiede masticazione e tempo per meditarci sopra. Per questo scrivo scarno, scrivo stretto.
Questo blog gira intorno alla scrittura, all'esperienza, alla realtà. Un viaggio, o un vagabondaggio, lungo quel che scorre in questo strano gioco che si chiama vita. Racconti, pezzi di storie vissute fuori e dentro la pelle. Perchè in fondo, non esistono confini, non esistono misure.
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