domenica 28 ottobre 2018

two hands

ore 23:04 - sul palco Artista suona chitarra sdraiata, migliaia di mani ondeggiano.
ore 23:06 - Predicatore conta i profitti delle proprie profezie.
ore 23:07 - Bambino (o Bambina?) viene violentato/a. Peluche, occhi sbarrati e braccia tese, assite inerme sul comò.
ore 23:11 - Uomo tradisce suo dio e sua donna con altre donne.
ore 23:12 - Figli leggittimi/illegittimi di certo carnali di Uomo e Predicatore ballano a ritmo di musica.
ore 23:12 e sedici secondi - Donna si piega su letto di figlio malato in stanza di ospedale.
ore 23:12 e trentasette secondi - Anziano si domanda quale detersivo deve usare per la lavatrice, ora che è rimasto solo. Non dorme. Ricorda.
ore 23:12 e quarantuno secondi - Artista si esibisce in assolo acustico, le migliaia di mani battono ritmo.
ore 23:13 e due secondi - Bomba cade su Terra. Cielo resta dov'è.
ore 23:13 e nove secondi - Uomo che ha sganciato Bomba sbadiglia e vira a destra.
ore 23:13 e undici secondi - Prostituta esce da auto, labbra lucide, occhi opachi. Fuori Buio è rimasto com'è.
ore 23:13 e quattordici secondi - Amici bevono, ridono ad alta voce, guardano a intervalli regolari il telefonino.
ore 23:13 e ventotto secondi - Pubblico applaude ultima canzone di Artista accompagnato dalla sua band.
ore 23:13 e trentatre secondi - Voci accusano, Voci negano, Voci difendono, Voci mentono, Voci si voltano, Voci non vogliono sapere. Voci tacciono.
ore 23:13 e trentanove secondi - Coscienza sale in auto, accende motore. I can change the world, with my own two hands. Make a better place, with my own two hands.
ore 23:24 - Strada curva, poi sale, sale, sale e di nuovo curva. But you got, you got, you got, you got, you got to use, use, use your own.

domenica 26 agosto 2018

la promessa

Cris non poteva più volare. 
 
Un giorno tanta pioggia lampi e tuoni 
caddero dentro il suo cuore 
e un'ala si spezzò sotto il peso della paura. 
 
Sulla terra non poteva stare. 
Aveva pensieri troppo alti per rimanere attaccato al suolo. 
Così viveva sugli alberi senza correre né spiccare il volo. 

Qualche volta l'ala spezzata gli faceva male. 
Succedeva quando era brutto tempo. 
Allora Cris chiudeva gli occhi 
e si metteva a sognare. 
Sognava sole e nuvole bianche, 
profumo di briciole, stelle comete e panna. 
 
Un giorno che guardava il mondo dal suo ramo, 
a metà strada tra cielo e terra, 
vide Mercy, che cercava di arrampicarsi sugli alberi. 
 
Mercy provava e cadeva, 
riprovava e cadeva, e rideva e piangeva, 
perché imparare è divertente ma fa anche un po' male. 
Qualcosa va perso e altro va trovato. 
 
Com'è vivere sugli alberi?, chiese Mercy a Cris, 
che la guardava incuriosito. 
Come stare in un sospiro, rispose. 
 
Com'è vivere sulla terra?, chiese allora Cris. 
Come stare su una pancia, rispose Mercy. 
Rimasero a guardarsi per un po' 
Cris a testa in giù, Mercy a testa in su. 
 
Poi Mercy si arrampicò su un ramo, 
e così facendo caddero a terra delle foglie. 
Mercy le guardò e disse: 
Il respiro sta nella pancia. 
 
Si è  felici laggiù, sulla pancia?, chiese Cris. 
La felicità è come un aquilone, rispose Mercy,
con esso catturi un soffio di vento e per un attimo voli. 
 
Cris mosse l'ala buona. 
Si ricordava com'è volare. 
Sì, forse si poteva essere felici sulla pancia, dopo tutto. 
 
Mi piacerebbe sentire il respiro della pancia, disse. 
Se vuoi, ti tengo io, rispose Mercy. 
Davvero?, chiese Cris. 
Promesso, rispose Mercy. 
Che cos'è una promessa?, chiese a quel punto Cris, 
a cui l'ala spezzata faceva ora un po' male. 
 
Una promessa è come una scatola dentro il cuore 
dove due torrenti si incontrano. 
Poi, al momento buono, la apri 
e i due torrenti si uniscono nel mare. 
Allora la promessa è compiuta. 

Sembra una cosa molto grande, disse Cris che pensava al mare. 
Sì, davvero, rispose Mercy, con un fiore tra i capelli. 
Ma è anche molto semplice, aggiunse. 
Con un balzo fu a terra e allungò la mano verso Cris. 
 
Il primo passo è come un tuffo, il cuore batte forte. 
Hai un po' paura, ma poi tutto si rimescola e scorre. 
Come l'acqua, come il respiro nella pancia. 
 
Cris fece un salto e i piedi toccarono l'erba 
per la prima volta. 
Avvicinò il volto alla terra e disse, 
Sento il mare. 
 
Che fa? Chiese Mercy. 
Respira, rispose Cris. 
 
Mercy e Cris si presero per mano 
e andarono incontro al vento 
stringendo tra le dita un aquilone.

domenica 15 luglio 2018

il coraggio, le paure

Vi siete mai chiesti come mai è possibile, in lingua italiana, fare il plurale della paura, ma non del coraggio?
Esistono davvero molteplici percosse e abbattimenti, da cui la parola paura trae il suo significato, ma un solo coraggio ad affrontarle?
Apparentemente può sembrare ingiusto, squilibrato. Se esistono varie paure, dovrebbero esserci altrettanti coraggi, sennò come fare per superarle tutte? Il coraggio per superare la paura di volare, ad esempio, o quello per vincere la paura del buio, quello per la paura di far brutta figura, quello per la paura dei rovesci della natura, quello per la paura di perdere qualcuno di caro... la lista sarebbe davvero lunga. Sarebbe dunque equo, o se non altro tranquillizzante, sapere di non dover sempre attingere ad un unico supereroe interiore contro tutti i pericoli che si abbattono sulla nostra coscienza.
Invece no. Coraggio è singolare. Unico e solitario.
Mi sono chiesta il perché di tale disequilibrio di forze in gioco. Senza interrogare filosofie, religioni o teorie neuroscientifiche, che non sarebbero alla mia portata, mi sono accontentata di un dizionario, che considero sempre un valido strumento per cominciare a fare chiarezza.
Ed eccolo allora il motivo dell'unicità del coraggio. Il coraggio risiede nel cuore, anzi, è fatto di cuore. Dal latino coratĭcum o anche cor habeo, aggettivo che deriva dalla parola composta cŏr, cŏrdis ’cuore’ e dal verbo habere ’avere’, avere cuore, il coraggio non è una virtù o uno stato d'animo, è un organo che pulsa.
Il battito del cuore segna il tempo della vita in modo molto più preciso di qualsiasi orologio. A volte accelera, a volte rallenta, dice esattamente come viviamo, piuttosto che quanto viviamo. Al cuore interessa la qualità e non la quantità, forse perché la vita non è una somma di accumuli.
Ogni paura blocca il respiro e va al cuore, cerca di far tentennare il battito del nostro coraggio, lo percuote, lo scuote, vuole capire se si lascerà abbattere. La paura, ogni paura, accorcia di un poco la nostra esistenza su questa terra.
Nutrire il cuore di gioia, nutrire il cuore d'affetto, di bellezza, è nutrirci di coraggio, è avere un cuore pieno.
Un cuore felice infatti è pieno di coraggio. Un cuore triste è scosso dai venti impetuosi della paura.
Per fermare la paura non serve il raziocinio della mente o un atto di forgiata volontà, basta un cuore ebbro di amore.



martedì 19 giugno 2018

news dal mondo delle favole

Oggi scrivo per festeggiare un nuovo arrivato in famiglia, il Bicocco.
Che cos'è un bicocco? Per chi non è solo curioso, ma vuole veramente esplorare l'infito mondo della fantasia, QUI potete trovare il libro. E se pensate di essere troppo grandi per darvi alle favole, beh, lasciate che vi dica una cosa: non si è mai troppo piccoli per sognare altri mondi, non si è mai troppo vecchi per smettere di farlo.

Ringrazio di cuore Martina Lorenzoni, le cui abili mani hanno dato vita ai disegni di copertina e dell'interno del libro. Non è impresa facile soddisfare l'immaginazione esigente dei miei due nipoti, la cui vitalità scorre nelle pagine del libro. Per essi era chiaro che il bicocco è "drago furbetto e coccolone", e Martina è riuscita in pieno a dar vita alla tenera creatura fantastica protagonista della storia.


Non voglio annoiarvi con la storia di quanto sia difficile pubblicare in Italia oggigiorno. Se prima non hai collezionato qualche milione di like, pin o follower, è davvero dura, perché pare che ormai contino più i numeri delle persone. Ma se non credessi un po' nella magia che sta dentro ognuno di noi, non sarei qui a provarci ancora, ma soprattutto non sarei qui a  celebrare il fatto che dall'amore, dalla connessione tra persone, nasce sempre qualcosa di nuovo, e credo che chi, come me, crede nell'arte della quotidianità, saprà fare un po' di spazio nella propria vita per questa dolce, buffa creatura.

sabato 17 marzo 2018

please wake up

Mi sta davanti agli occhi, su due righe di parole senza sfumature di emozione.
L'esito non offre spazio a interpretazioni: qualcosa in me ha cominciato a crescere in modo disordinato. Il livello di gravità viene descritto da una lettera e un numero. Un codice alfanumerico mi guarda e mi parla silenzioso.
Sappiamo tutti cosa vuol dire, ma non siamo preparati a scoprirlo in noi.
Sappiamo che può accadere, ne sentiamo parlare, abbiamo tutti un amico, un conoscente, un parente che l'ha già vissuto, ma per la maggior parte del nostro tempo spingiamo la possibilità che accada proprio a noi oltre qualsiasi nostro orizzonte, reale o desiderato.
Eppure.
Un numero e una lettera ora contano i miei giorni. Ascolto che effetto fanno nella mia mente. Respiro.
Primo, paura.
Non di morire, o del dolore, ma di lasciare questo posto presto, prima di aver vissuto tutto quello che c'è e che ci può essere. Perché è bello il pianeta dove sono finita ad abitare, e ogni giorno è un'esplosione di stelle di nuova creazione, se ci pensi un attimo. Non è scontato nulla. Non è scontato il buio prima dell'alba, non è scontata la musica che ascolto quando passeggio con il mio cane, non sparata in cuffia ma gratuitamente donatami da un'orchestra di pettirossi, merli e usignoli che già dalle cinque del mattino si accordano. Non è scontato l'incontro con la gente, non è scontato un sorriso in risposta a un'offesa, non è scontata la voce che si fa canto.
Respiro.
Secondo, dolore.
Non per il male, ma per lo spreco di giorni e di energia a dar peso a opinioni e giudizi, a soggiogarmi a leggi, pretese, aspettative, ad arrabbiarmi per cose inutili o utili, non importa. Ogni istante non passato nella pace è un istante che non esiste, un istante che si fa ostacolo e che toglie spazio al nostro movimento.
Se le rughe dicono le nostre battaglie e fatiche, ci deve essere anche qualcosa che dice la gioia vera provata. Per me sta nella flessuosità del mio corpo.
Respiro.
Terzo, gratitudine.
Non per quello che ho ricevuto finora, ma per l'occasione che le mie cellule disordinate mi stanno dando: trovare un nuovo ordine, perché in fondo lo so da sempre che è tutto finto, sebbene l'inganno sia perfettamente organizzato e potente. Finti sono i valori, finte sono le ragioni, finti sono i bisogni, finto è persino l'amore che pensiamo di provare per gli altri, ma che dura solo attimi. Finte sono le guerre, finte sono le religioni, finto il benessere che abbiamo costruito, le povertà che abbiamo provocato, finti i problemi, finte le soluzioni.
Respiro.
Una cosa so per certo: la vita non finisce qua. 
Please wake up.

venerdì 23 febbraio 2018

abdicare

Abdicare. Verbo da re, verbo di rinuncia.
Abdicare indica l'abbandono volontario del potere da parte di un sovrano. Per qualsiasi altra carica sono previste le dimissioni, atto con cui si scioglie un contratto, una dipendenza.

Il termine deriva dal latino ab - prefisso che indica distacco, allontanamento, deviazione da un retto sentiero - e dicare, con valore di consacrare/dichiarare. Abdicare riguarda dunque un allontanamento, un distacco dalla propria consacrazione.

Chi abdica rinuncia effettivamente a un potere conferito e legitimmizzato da una dichiarazione solenne, da un atto di investitura spesso accompagnato, almeno in antichità, da un rito dal sapore sacro: l'unzione dell'eletto. La sovranità infatti un tempo era considerata manifestazione terrena della volontà divina.

Ma io non sono un re e nemmeno una regina, perché dovrebbe interessarmi questo verbo?
Perché ultimamente ho raggiunto la consapevolezza di aver abdicato la mia sacralità per seguire altro nella vita. La mia sacralità, certo, e con questo non voglio scomodare nessuna religione. Per me, ogni essere umano è unico e irripetibile, da qui la sua sacralità.

Il termine "sacro" deriva infatti dal radicale indoeuropeo *sak che sta a indicare qualcosa avvinto, attaccato alla divinità, ma anche con il significato di recinto, separazione. Il sacro è quindi un concetto fondante, puro, non contaminato, luogo dell’assoluto e del divino, separato dal resto, schierato come “unico” al di qua del recinto.

E all'atto della procreazione non accade forse che un unico nuovo, separato da tutto il resto, si formi? Ma se ancora avete dei dubbi, prendete un bambino, nel suo primo vagito, nella sua totale inerme fragilità, e guardatelo, se ci riuscite. Lo sguardo di un bambino può mettere davvero a disagio un adulto, e il perché mi è chiaro. Il suo sguardo non è quello di uno schiavo, né di un essere umano alle dipendenze di un altro essere umano. Un bimbo ha lo stesso sguardo delle bestie selvatiche: nobile, libero, placidamente consapevole di essere sovrano di se stesso. Quelli di un bimbo sono occhi di un essere potente, non di un essere inerme.
Quel bambino lotterà, fin da subito, per far valere i suoi diritti e soddisfare i suoi bisogni in un mondo di schiavi e dipendenti. Saprà gridare fino a perdere il fiato per non farsi usurpare ciò che sa essere un suo diritto inalienabile: ascoltare se stesso, seguire se stesso, essere un tutto unico con se stesso.

Ma poi, a volte, nella vita, si finisce con abdicare a se stessi per una semplice quanto potente ragione: la paura. La paura è un mostro dalle mille facce, sa nascondersi dietro la maschera degli affetti familiari, delle regole sociali, della morale, dell'amicizia, dell'amore, del rispetto, della tolleranza e delle più alte virtù. Tuttavia, per quanto potente, essa è in realtà inerme. Può solo occultare, non distruggere. Non ha il potere di abbattere il nostro recinto sacro, ha solo il potere di offuscarne la vista. Non può farne tacere il battito, può solo aumentare il rumore per renderne difficile l'ascolto.
Abdicando ci allontaniamo da, ma non annulliamo, la nostra unicità. Possiamo smettere ci crederci, ma essa è lì, nel recinto sacro, divina e sovrana.
Possiamo abdicare nella vita, è sancito nella nostra libertà, ma non possiamo strapparci di dosso la nostra sovranità.
Possiamo allontanarci di molto dal sentiero, ma basta un attimo di consapevolezza per rischiarare le tenebre e ritrovarci esattamente là dove sempre siamo stati: in quel luogo puro e  non contaminato che sappiamo esistere in noi, al di là degli spazi e dei pesi dell'umana anatomia.
Non conosco la misura del sacro, né quella della sovranità, ma ho motivo di credere che si aggiri tra le altezze dei giganti e il peso del vento.

lunedì 1 gennaio 2018

nel nome del padre e del figlio

Natale uguale nascita. Gioia, celebrazione, festa, luce di speranza per le genti.
Nascita  uguale travaglio: dolore, apertura, fuoriuscita, buio e acqua.
Durante queste festività dove la tradizione impone gioia, le benedizioni elargiscono pace, gli auguri si imbottiscono di ogni bene in formato .gif per l'umanità tutta, si soffre.
In famiglia riemergono vecchie ferite mai sciolte, si fatica a reggere il confronto tra la pace che si cerca e i conflitti interiori che premono. Qualcuno salta via per la pressione, perché tutti spingono involontariamente contro tutti, e lo spessore interiore è più sottile della carta velina.
Nel nome del padre, un figlio tace.
Nel nome del figlio, un padre tace.
Entrambi portano sul volto i segni della sofferenza.  Il resto del mondo non vede, la sofferenza è trasparente al mondo d'oggi, dove tutti sono impegnati a postare felicità.
Il figlio vede, sa e abbraccia il padre rinchiuso in se stesso. Il figlio vorrebbe dirgli che non importa, che tutto è finto, l'amore, i legami umani, il dolore, gli errori, tutto è finto. Ma l'orgoglio del padre ha cementato il guscio l'abbraccio scivola su quelle ossa vecchie e fragili che pure chiedono aiuto. Il figlio accarezza la serratura di quella porta chiusa che è il padre.
Nel nome del figlio, il padre ha tenuto una moglie con cui non ha saputo riunirsi ad ogni ferita, si è giudicato ripetutamente per errori commessi solo una volta, ha reiterato all'infinito la condanna fino a spegnere ogni stella del suo infinito.
L'uomo non sente di avere più via di uscita, conta gli anni che lo separano dalla morte.
Il figlio sente che esiste una via di uscita, ma la sua mente è confusa e stanca. Troppi inganni lungo la strada, troppi segreti, troppi giudizi gli appesantiscono il passo.
Entrambi, a loro modo, si sono amati. Entrambi, a loro modo, han chiesto perdono e si sono perdonati, perché un padre è un padre, anche se ti violenta e tu l'hai dimenticato per amore, e un figlio è un figlio, è gioia, celebrazione, festa, luce di speranza negli occhi di un padre, anche se si butta via perché da piccolo gli hanno strappato di dosso il proprio valore.
Un mostro si specchia nell'altro mostro e il resto del mondo va avanti. A questo servono i mostri. A raccogliere la follia dell'umanità tutta, così che essa possa sentirsi viva, sana, a posto, quando tutto è già morto da tempo nel cuore dell'uomo.
La solitudine avvolge il padre e il figlio. Nessuno andrà a fare visita ai due, d'altronde nessuno ha tempo a questo mondo, men che meno per accogliere il dolore altrui.
Stranoo però che la ricerca scientifica ci abbia svelato che il tempo non esiste.