mercoledì 16 aprile 2014

revolution

"Ogni volta che rispetti chi fa tutto un altro viaggio", così canta un verso de La rivoluzione di Daniele Ronda.
Il movimento immenso della rivoluzione... penso ai corpi celesti,  penso alle scosse politiche e sociali, al terreno emotivo che si muove dentro, penso ai nuovi punti di partenza della vita, subiti o cercati, penso ai pesi che diamo alle idee, agli uomini, a come cambiano nel tempo.
Ogni rivoluzione rovescia piani, sposta equilibri, mette in moto tempi nuovi, fa raggiungere dimensioni di noi stessi prima sconosciute.
A volte accadono piccole, impercettibili rivoluzioni. Sono quelle in cui credo maggiormente, perché la storia mi ha consegnato fino ad ora grandi ideali tramutati in violenza e sopruso, rabbia e macerie invece di un respiro che sboccia.
Tutto mi pare stia in quel semplice sostantivo, nemmeno molto appariscente: rispetto.
La radice latina parla così:  forma intensiva di respicere, significa guardare indietro, riguardare. Rispettare accenna ripetizione, indugio nello sguardo, è occhio che si sofferma ad osservare, che torna indietro, guarda anche dietro, comprende di una realtà anche il suo lato non manifesto, ciò che è apparentemente indecifrabile.
Rispettare chi fa tutto un altro viaggio: basterebbe questo per far terminare pettegolezzi e chiacchere, voci che riecheggiano ciò che occhi non hanno visto, che ripetono a staffetta senza essersi voltate indietro.
Siamo ormai una società monodimensionale: guardiamo la facciata, non guardiamo più dentro, non guardiamo più dietro. Siamo sempre di corsa, non c'è tempo per voltarsi indietro, si deve crescere a costo di schiacciare se lo spazio è saturo.
L'economia piegata al denaro è una morsa che stritola il rispetto, calpesta il diritto, allontana l'uomo dai suoi simili e da se stesso.
A tutti auguro una piccola rivoluzione. Ma fatela piano, fatela dentro.


domenica 13 aprile 2014

jiiwaa

Nepal e Tibet sono due terre vicine solcate dalla catena dell'Himalaya.
L'immenso arco montuoso dell'Himalaya è un'area di circa 2.500 chilometri di lunghezza per 200 chilometri di larghezza occupata da altissime montagne, le più alte che ci siano. Sono terre dove per viverci ci vuole un DNA forgiato in alta quota. Povertà, fatica, resistenza e accettazione del presente fanno il resto.
Tuttavia, nonostante l'asprezza di quei luoghi, nepalese e tibetano sono due lingue dolci, come lo è il sorriso di quella gente. L'Everest, la montagna più alta del mondo, è chiamata Sagarmatha in nepalese e Chomolungma in tibetano.
Gli sherpa sono diventati famosi proprio con la "conquista" dell'Everest, quando nel 1953 uno sherpa e un alpinista neozelandese raggiungono insieme per la prima volta la vetta della montagna più alta del mondo. A giudicare dai racconti e dal numero di decessi che ogni anno purtroppo avvengono, c'è da ritenere che affrontare una vetta himalayana sia quanto di più pericoloso l'uomo possa affrontare sui propri passi. E se ci vuole una buona dose di preparazione tecnica, audacia e mentre fredda, nulla può azzerare completamente la paura che si prova davanti a quei granitici massicci che non hanno bisogno dell'uomo per esistere.
Eppure, in lingua sherpa la parola "paura" non esiste. Esiste jiiwaa, che indica al contempo paura e pericolo. Non si può domandare a uno sherpa "hai paura". Occorre chiedere, affinché sia in grado di comprendere la domanda, se c'è pericolo-paura in una determinata situazione.
Per gli sherpa la paura è associata al pericolo, si manifesta quando c'è pericolo, altrimenti essa semplicemente non può manifestarsi né, quindi, essere espressa.
Quindi, o c'è un reale pericolo, o non c'è motivo di provare paura.
Mi domando cosa potrebbe comprendere uno sherpa delle nostre innumerevoli paure per qualcosa che non c'è: paura di non piacere, paura di sbagliare, paura dell'ignoto, paura del domani...
Se guardo la società a cui appartengo per legame di nascita, provo il ragionevole dubbio che qualcosa deve essersi perso lungo la nostra linea "evolutiva".



giovedì 10 aprile 2014

quello che resta

Ci sono momenti in cui si trabocca. Sono i momenti in cui si piange o si urla, occorre trovare uno sbocco alla piena che si è  formata dentro.
Oggi è uno di quei momenti. Ho incontrato in un solo pomeriggio 42 genitori, parlato con loro, ascoltato schemi mentali, fotografato vanità, paure, insicurezze, smarrimenti e confusione.
Nello stesso pomeriggio, una donna è in ospedale ad attendere la morte. Porta in sé un male che non sappiamo curare. Lascerà una figlia che non è ancora donna e già deve reggere il peso di una perdita. Non so esprimere in grammi il peso del dolore.
Nel frattempo, qualcuno sta viaggiando in Costa Rica, mentre io mi muovo lungo un triangolo fatto di una manciata di chilometri, consapevole che corro per fuggire alla solitudine.
Nello stesso giorno, due alunne mi regalano un disegno con un cuore e una scritta in cui mi dicono che amano la materia che insegno. Sempre nello stesso giorno vengo a sapere che un concorso che ho vinto è praticamente nullo, basta una telefonata di pochi minuti per azzerare l'impegno di un anno e colorare di incertezza il mio domani.
Vorrei andarmene. Lontano, in qualche paradiso terrestre dove ancora esiste e governa la pace. Purtroppo temo sia un'illusione: ovunque il turismo ha piantanto la sua bandiera, nemmeno il più inospitale e solitario dei luoghi è esente dalla presenza beffarda dell'assurdo sistema di vita che l'uomo ha costruito. Persino le montagne più sacre e impervie sono state violate dal consumismo.
La vita la consumiamo e lei  ci consuma: una forma di cannibalismo sottile e perversa.
Cosa resta dei nostri gesti, dei battiti, dei nostri respiri, delle nostre parole, dei nostri desideri, dei nostri pensieri rivolti a chi non è con noi, cosa resta di questo giorno adesso che è sera, cosa resta della fatica, cosa resta dell'entusiasmo, cosa resta della professionalità, cosa resta del sapere, cosa resta del dolore, cosa resta della gioia? Cosa resta?
Dove va a finire tutto, tutta l'energia che siamo? Adesso, in questo momento, qualcuno nasce, qualcuno soffre, qualcuno ride, qualcuno ama, qualcuno violenta, qualcuno sta cercando, qualcuno si sta smarrendo, qualcuno sta guardando il sole che sorge, qualcuno è incollato al televisore, qualcuno gioca, qualcuno sospira, qualcuno corre, qualcuno grida, qualcuno è sotto le bombe, qualcuno sotto le stelle.
Ma alla fine del giorno, cosa resta di questo qualcuno chiamato Uomo?

sabato 5 aprile 2014

il tempo della libellula

Le larve delle libellule mutano generalmente 10-15 volte, subendo ogni volta modificazioni progressive e poco appariscenti; possono vivere in questo stadio fino a cinque anni, e solo dopo questo lungo periodo compiono la metamoforsi che le porterà ad assumere la forma adulta che tutti ben conosciamo. 
Un esemplare adulto di libellula vive in media tre mesi. Cinque anni per spiccare il volo, cinque anni nell'acqua contro solo tre mesi nel cielo.
Ma forse la libellula non lo sa o non conta. 
Non chiederti quanto ci vorrà per realizzare il tuo sogno. Comincia ora.
Dovrai trasformarti più e più volte, ma non contare. Il cielo sa.