lunedì 23 dicembre 2013

il giorno in cui tutte le cose vanno a posto

Nell'arco di ventiquattro ore c'è sempre qualcosa da mettere a posto: un oggetto sul tavolo, un abito nell'armadio, un problema al lavoro, un documento sulla scrivania, una incomprensione in una relazione. E ora di sera, volontariamente o meno, altro si sarà creato che richiederà attenzione e tempo per essere rimesso in ordine, in un accumulo incessante di ordine e disordine. I fisici lo chiamano entropia, io lo chiamo bisogno di armonia.
Cerchiamo e costruiamo ordine, ma immancabilmente il disordine torna, negli spazi fisici come in quelli affettivi e personali. Ogni movimento, sia esso interiore o esteriore, crea o riduce spazio, aggiungendo comunque qualcosa, tanto la vita è incapace di annullare.
Mi domando come sarà il giorno in cui tutte le cose andranno a posto, il giorno in cui non seguirò più il mio bisogno di ordine, il giorno in cui non ci saranno più ferite da curare, rancori da coltivare o estirpare, progetti da terminare, pareti da dipingere, vetri da infrangere, sorrisi trattenuti da restituire, amori da lasciare andare.
Mi domando come sarà il giorno in cui tutte le cose andranno a posto, come guarderò il cielo quel giorno, come brillerà il sole quel giorno, come cadrà la notte quel giorno, come mi sfioreranno le stelle quel giorno.
Mi domando cosa sentirò dentro, e penso, silenzio. Un meraviglioso, dolcissimo silenzio, perché tutte le voci taceranno, tutti i pensieri non avranno più bisogno di essere, e qualcosa si aprirà, ne sono certa.
E allora guarderò tutto e tutti come fanno le tigri.

martedì 3 dicembre 2013

tutto è concesso

Scendo dal fianco innevato di una montagna. La neve si offre morbida alle lame degli sci. La luce risplende tutt'intorno, rimbalza sulle vette rimandandomi un orizzonte aperto, il cielo è terso, profondo. Ringrazio e ricordo che un giorno lontano ho odiato la vita, le ho voltato le spalle, ho preferito il buio creato dalla mente e ho lasciato che scendesse ad abitare il cuore, la pancia, fino a non vedere più niente.

Al tramonto il cielo si infuoca, graffia l'orizzonte di arancio, di viola, una leggera corsa di nubi dorate stupisce la notte che avanza.
Guardo e ringrazio. Tutto è concesso nella vita: rabbia, rifiuto, grida, abbandono, disprezzo, calunnia, inganno, fuga, giudizio, lotta, paura, sfida, vendetta. Tutto la vita concede purché un uomo impari ad amare nella libertà. Mai ho conosciuto insegnante più esperto.

Davanti all'alba di stamani, che non ha cercato il mio plauso o il mio consenso, ringrazio di essere viva e chiedo perdono per ogni istante perso a preferire il buio alla luce.
Ringrazio che vedo, che vedo e amo.


sabato 30 novembre 2013

segno

La sveglia mi trova già desta. Fuori il rigo dell'alba si ingrossa piano piano.
Dormo poco. Il sonno è ora spesso interrotto. Ascolto così di notte i segni del tempo nel mio corpo.
Mi alzo nel silenzio di una città che tiene ancora chiuse le imposte.
Lo specchio mi rimanda un sorriso. Bene. La voglia di vivere, come il sole là fuori, è una promessa lasciata nell'aria la sera. E' bello ritrovarla al mattino.
Sul volto aumentano i segni che paura e amore han tracciato in silenzio, le scelte che ho fatto ora mi guardano, righe sottili, a volte profonde, a volte brevi e interrotte.
Qualcuno forse saprebbe leggere la storia che porto scritta sul volto, un dialogo tra me e la vita, e decifrarmi ogni piccola piega, ogni svolta ed arresto. Ma comunque sia, ne son certa, son tutti sentieri intrapresi per cercare una sola cosa: la gioia. Ogni libro, ogni lingua, alla fine parla di questo, di una ricerca, un cammino verso un'unica meta, sia esso percorso da un singolo uomo o da un intero popolo.

Dormo poco e ascolto di notte il rimbombo dei miei passi che la vita ora mi restituisce.
Il tempo ora si sta piegando, svolta. A poco a poco, da ora in avanti, mi avvicino a Casa.

mercoledì 11 settembre 2013

occhi pieni occhi vuoti



Gli occhi di un bimbo.
Sono profondi come caverne, estesi come il cielo.
Sono vuoti di giudizi e brillano di luce, perché la luce attraversa le pupille senza incontrare ostacoli.
Sono occhi che accolgono.
Quando osservano, vedono e comprendono.
Sono occhi nudi.

Gli occhi di un adulto.
Sono spessi come muri, chiusi come porte.
Sono pieni di giudizi, e sono opachi, perché la luce fatica ad attraversare le pupille.
Sono occhi tesi a fare domande, a cercare risposte.
Quando guardano, proiettano non comprendono.
Sono occhi che vestono.





con-fondere

Il termine confusione deriva dal latino con-fundere, sgnifica mescolare insieme, fondere insieme più elementi. Implica il fatto di rendere indistinto, impossibilità di discernere, separare, scindere, vedere in modo distinto.
E' il termine che meglio descrive la nostra società, che spesso ci lascia confusi, incapaci di comprendere, perché tutto ci appare come un amalgama indistinto. La verità non si sa mai bene dove sia, e quando si è in confusione è facile perdersi, smarrirsi, ingannarsi, bloccarsi.
Credo sia il disagio più diffuso oggi, non ci sono medicine, non ci sono cure ufficiali, forse non ci sono nemmeno ricerche scientifiche sull'argomento. Ma la confusione è evidente, per le strade, nelle relazioni affettive, nei rapporti interpersonali, negli affari, nell'educazione.
Spesso non sappiamo bene cosa vogliamo, siamo felici solo per un istante, non riusciamo a capire se le persone che abbiamo davanti siano trasparenti.
Questo stato di confusione, quando diventa uno stato mentale, crea incertezza, insicurezza, indecisione cronica, sospensione eterna. Deprime e toglie forza e vitalità ai nostri giorni.
Credere sembra essere l'unica vera forza che può opporsi ed evitare lo stato di confusione. Credere in qualcuno, in qualcosa, e infatti mai come in quest'epoca siamo pervasi da ideologie, religioni, spiritualità, mode e tendenze di ogni genere. Credere da sempre mette ordine, offre appigli, direzione, permette al debole e insicuro di trovare serenità nell'affidare a qualcun altro le proprie scelte.
Ma cosa accade se quel qualcuno, quel qualcosa in cui si crede, viene disilluso, se il basamento delle nostre certezze crolla davanti al volto della realtà? Cosa resta dopo, come si riparte? Quale conversione di rotta è necessario fare? Quali e quante energie è necessario utilizzare? Da dove ripartire?
Perché quando la realtà spazza via le nostre credenze, si è come smarriti in mezzo al mare, senza conoscere dove ci si trova, senza strumentazione, anzi, consapevoli che è proprio a causa di un malfunzionamento della strumentazione che ci si è persi.
Ad ogni perdita di certezza, occorre trovare un nuovo baricentro. Occorre star dentro la realtà, viverci dentro, accettando prima di tutto la confusione che ha generato l'inganno e la paura che ha generato la confusione. Ma è anche un grandissima occasione per un nuovo viaggio, una nuova consapevolezza, una nuova evoluzione.
Forse smarrirsi non è affatto un fallimento. Forse smarrirsi è una meravigliosa possibilità offerta all'uomo per conoscere più a fondo se stesso e diventare più amante di sé e della vita.
Ma occorre attraversare il mare, senza bussole, senza certezze. Soli.



domenica 8 settembre 2013

appesi


A cosa sei appeso?, chiese un vecchio nepalese a un alpinista venuto a scalare una delle cime più alte del mondo.
Poi continuò, Vedo molte persone appese a qualcosa, ma pochissimi camminano liberamente.

Appesi alle idee.
Appesi ai sogni.
Appesi agli affetti.
Appesi al successo.
Appesi al denaro.
Appesi al sesso.
Appesi all'alcol.
Appesi alle droghe.
Appesi alla moda.
Appesi alla fama.
Appesi al potere.
Appesi alla vendetta.
Appesi al compatimento.
Appesi alla solitudine.
Appesi alle opinioni.
Appesi ai giudizi.
Appesi alle ferite ricevute.
Appesi agli errori.
Appesi al passato.
Appesi al futuro.
E tu, a cosa sei appeso?


Cosa credi che ci sia lassù?, chiese ancora il vecchio all'uomo che si era allenato a lungo e aveva investito molto per realizzare quella scalata.
Cosa pensi che vedrai lassù? Lì non c'è nulla, nulla che tu non abbia già dentro di te. Ma hai la mente troppo piena per vedere. Non c'è spazio nella tua mente nemmeno per vedere te stesso.

Riesci a vedere te stesso? Riesci a vederti nella tua nudità, nella tua nudità-pelle-muscoli-ossa-sangue-visceri-lacrime-umori-energia? Riesci a vederti e stupirti, piangere di bellezza e nostalgia di una stella, la stella che sei?

giovedì 5 settembre 2013

the wastepaper basket

E' un gesto che compiamo frequentemente, tutti i giorni. Ci consente di eliminare i file obsoleti, gli errori, la posta indesiderata, le cartelle che non ci servono più. Il risultato è maggiore spazio di memoria, ordine nell'archiviazione dei dati nel nostro computer, un senso personale di pulizia ed efficienza. Personalmente faccio pulizia del mio mac con una certa rigorosità, quasi un automatismo. E' una macchina affidabile, robusta, mi viene spontaneo ricambiare la sua efficienza con un po' ordine.
Mi piace in particolare il rumore di carta stropicciata che il mio mac fa quando elimino un file, è come se in quel momento io appallottolassi un foglio e facessi canestro nel cestino della carta straccia nell'angolo della stanza. Chi non l'ha mai fatto? E' anche divertente, no?
E la nostra mente? Per una volta, seguiamo la classica analogia mente-computer al contrario. Proviamo a chiederci se eliminiamo mai i file inutili, obsoleti o peggio, dannosi, dalla nostra mente. Tutti quei pensieri di rabbia, vendetta, paura, inadeguatezza, solitudine, disistima, vittimismo che quotidianamente fabbrichiamo dentro di noi, sono "file" che non ci servono, sono dannosi, occupano solo spazio nella nostra mente e soprattutto, impediscono alla nostra mente di lavorare al meglio per il nostro benessere psicofisico e quindi per la nostra felicità.
C'è chi per farlo medita, chi recita mantra, chi fa yoga, in genere la cultura orientale è molto più prolifica di tecniche e strategie in questo campo. Ci vuole tempo, allenamento, perseveranza e molta, molta pazienza; dati tali requisiti, il rischio insuccesso per un occidentale allevato nel mercato della produzione è elevato, anzi molto spesso non prendiamo nemmeno in considerazione tali approcci, preferendo "scorciatoie", più adatte alla nostra mentalità (farmaci in primis).
Io propongo questo semplice esercizio pratico, non richiede grandi energie, né un tempo e unluogo specifici per metterlo in pratica. Si può fare mentre si guida, mentre si beve il caffè con i colleghi, mentre ci si lava i denti, al supermercato...
Usate l'immagine del cestino della carta straccia, prendete quel pensiero negativo che vi passa per la mente, appallottolatelo e... fate canestro!
Buttate via i pensieri negativi, cestinate tutto ciò che occupa inutilmente la vostra mente, tutti quei pensieri che vi fanno venire mal di testa, mal di stomaco, che vi irrigidiscono le articolazioni e vi procurano tensioni muscolari. Sono pensieri che tolgono energia, spazio e movimento non solo alla mente, ma anche al corpo, al dispiegarsi libero dei vostri desideri.
Fate pulizia, tenete ordine nella vostra mente come nel vostro computer.
Difficile? No. Io amo il mio mac, è una macchina davvero bella, non mi ha mai creato problemi. Vuoi che non sia capace di amre me stessa almeno un pochino di più di un computer?
Quindi forza, usate quel cestino, buttate via i pensieri inutili. Potete scegliere no?
Ricordate che i pensieri sono vostri, li fabbricate voi. Allora scegliete, eliminate quelli cristallizzati, vecchi, tristi, e fabbricatene di più belli, vitali, gioiosi.
Buon cestino a tutti.


sabato 31 agosto 2013

abitare

La radice latina del verbo abitare deriva da habere, ovvero avere. Abitare è un intensificativo del verbo avere, più propriamente significa continuare ad avere. Abitare  implica possesso di o stanziamento in uno spazio fisico senza soluzione di continuità, prevede l'esserci, starci, anche domani, toglie immediatamente dubbio sul futuro, offre stabilità, garantisce sicurezza, elimina il mutamento, annulla il movimento.
L'uomo un tempo era nomade, non possedeva un'abitazione, abitava non un edificio, un luogo circoscritto, ma uno spazio, la terra stessa, mantenendosi in continuo movimento e così conservando una proprietà fondamentale: la centratura in se stesso.
Poi l'evoluzione ha spinto l'uomo a fermarsi e ad abitare luoghi circoscritti, definiti, posseduti e sanciti nel tempo da norme e leggi, tasse e tributi.
Le nostre abitazioni sono il luogo in cui mettiamo radici, in cui viviamo gli affetti, l'intimità, investiamo energie, tempo e risorse per prenderci cura del nostro spazio privato, lo custodiamo, lo proteggiamo con sistemi di allarme sofisticatissimi, lo arrediamo, lo riempiamo di oggetti, esperienze, vissuti, memorie.
Abitiamo comunque ancora su un pianeta, la terra, di cui non ci prendiamo più cura, anzi, soffochiamo, inquiniamo, sporchiamo, imbrattiamo di chimica e cemento ogni spazio vitale. E' come se avvelenassimo le pareti della nostra casa con vernici tossiche, tappezzassimo le stanze di spazzatura, le arredassimo con oggetti inquinanti di ogni genere, è come se tenessimo nel nostro giardino, tra l'olivo secolare e la siepe di ortensie, dei bidoni di rifiuti radiattivi.
Nessuno lo farebbe mai, e allora perché? Perché l'uomo devasta la terra, la sua casa?
L'uomo inquina e sfrutta la terra invece di abitarla da quando ha smesso di abitare un altro luogo, sacro, profondo, meraviglioso. L'uomo ha smesso di abitare la terra da quando ha smesso di abitare se stesso.
Ogni essere vivente, ogni forma vivente sulla terra è fatta per la vita, una vita di equilibrio e armonia. Lo dice il nostro scheletro, lo dicono i nostri muscoli, i nostri sensi, lo gridano i mari, lo cantano gli uccelli, lo salutano le corse dei felini nella savana, tutto, tutto è assolutamente meraviglioso.
Ma l'uomo non abita più se stesso e così non sa dov'è, e non gli bastano i gps e i satelliti per ritrovarsi. Le mode, le culture, le ideologie, le religioni, dimostrano semplicemente che l'uomo non sa chi è, non abita più se stesso, e così si fa abitare da tutto e da tutti.
Nella Bibbia due sono i richiami che mi vengono in mente. In Genesi, Dio chiede ad Abramo, dopo il peccato originale, Dove sei? Quasi a dire che che il simbolo e conseguenza del peccato originale è stata la perdita della centratura in se stessi. Non ci si nasconde se non quando si ha paura, e l'uomo aveva vergogna e paura di se stesso.
La seconda eco è nel vangelo di Giovanni, quando Gesù afferma, Se uno mi ama osserverà la mia parola; il Padre mio lo amerà, e verremo da lui e faremo dimora presso di lui.
Il peccato originale ha sradicato l'uomo dalla sua sacra dimora, Dio stesso, ma vivere nell'amore della Vita, della Verità, ci permette di essere abitati dal sacro, di essere dimora per lo spirito.
Abitare se stessi è amore.
Abitare se stessi dà pace, da forza, dà gioia, dà un incredibile, dolce sorriso in volto.
Abitare se stessi è gratitudine.
Abitare se stessi è pacifica accettazione della realtà.
Abitare se stessi è stare nel presente, unico tempo esistente.
Abitare se stessi è essere in contatto, è essere collegati.
Abitare se tessi è danzare, vibrare nel creato.
Abitare se stessi è un volo, magnifico, eterno.




lunedì 26 agosto 2013

mutilati

Nella nostra società non c'è spazio per le menomazioni. Applaudiamo la bellezza, fatta di armonia, integrità, perfezione di forme, equilibri di colori e misure. Fin qui tutto ok, viviamo su un pianeta che, se e quando ci prendiamo il tempo e la voglia di osservarlo bene, è bellissimo; nonostante le devastazioni che riusciamo ad infliggere alla terra, è ancora bellissima, quindi la bellezza e il fascino ci appartengono.
Tuttavia nella nostra società ogni minimo difetto o imperfezione va curato, come fosse un morbo, una malattia, un mostro da cui fuggire, come nelle favole di orchi e principesse. Esistono rimedi per tutto, l'acne, le rughe, la cellulite, i peli superflui (può essere la biologia superflua?), e se proprio il difetto non si può combattere, allora va coperto, cammuffato, ed ecco le tinte per capelli, i fondotinta, i tacchi alti, l'elenco potrebbe diventare infinito.
Esistono però menomazioni ben più gravi e profonde che non si posso nascondere con protesi artificiali, bisturi e silicone. Sono ferite interiori, tagli, perdite, c'è molto di confuso, ferito, arrabbiato e rimosso sotto pelle. Ed è lì che però si prendono le decisioni fondamentali, sotto pelle.
Ho ben presente una persona che è stata menomata a quattro anni. Era indifesa, non c'era nessuno a difenderla, non seppe difendersi. E come si fa a quattro anni a difendersi? L'istinto di sopravvivenza è potente, e se non scappiamo davanti al male, è solo perché vogliamo bene a chi ce ne sta facendo. E infatti qualcuno le ha fatto del male, come mai si dovrebbe a un bambino.
Bene, quella persona da allora non ha fatto che scappare da un mondo che la spaventava, perché non poteva più cercare protezione in chi avrebbe dovuto proteggerla. E non solo, ha nascosto la sua parte ferita per non mostrarla al mondo, per non riceverne inutile commiserazione, o peggio, condanna. In un mondo dove non c'è spazio per le ferite, non c'è tempo per le cure, in un mondo che o sei in prima fila o non sei nessuno, come si fa?
Giusta o sbagliata che sia tale scelta, scappare significa non vivere. Se scappi hai paura, se hai paura non ami, se non ami, non stai vivendo. E tutta la tua esistenza rischia di essere tempo perso.
Ne vedo tante di persone menomate che nascondono se stessi a se stessi e agli altri.
Ma voglio dirvi una cosa: siete sopravvissuti, e siete ancora qui. Siete sopravvissuti e questo vuol dire che siete più forti, attaccati alla vita. Non sentitevi vittime, non lo siete. Il vostro istinto vi ha salvato, il resto non conta.
Sopravvivere significa vivere sopra. Ad ali spiegate, più lontano, più a lungo. Ci vuole coraggio, il coraggio di amare se stessi così come siamo, ma ne vale la pena.
E un pizzico di sano, vitale menefreghismo.



domenica 25 agosto 2013

cervello interiore

Nell'arco della nostra intera esistenza, quanto tempo viviamo veramente? Quando tempo ci sentiamo veramente collegati a noi stessi e tutto quel che ci circonda, pienamente felici, pieni di energia, vivi? Non sto parlando di fare cose estreme, provare ebbrezze adrenaliniche, sesso sfrenato o qualsiasi cosa di "eccessivo" a cui pensiamo di dover ricorrere per raggiungere stadi superiori di benessere comunque provvisorio. Parlo di vivere veramente, secondo il proprio sentire, secondo la propria interiore libertà, secondo quel ganglio fondamentale che spesso chiamiamo cuore, ma che francamente non mi piace come termine, essendo scorrettamente utilizzato, abusato in tanti finti sentimentalismi mediatici. No, parlo di un ganglio più viscerale, molto profondo, una specie di cervello, di gps, di bussola interiore che non sbaglia mai un colpo. E' un cervello forte, sereno, pacifico, inamovibile, che nessuna tempesta può scuotere, nessun uragano travolgere. Basta ascoltarlo.
Spesso, però, ascoltiamo altro. Ascoltiamo la mente, fatta di paure, insicurezze, morali, permessi e divieti, e ci perdiamo letteralmente in essa, perdendoci la vita.
Un test per verificare se stiamo vivendo con il cervello interiore o con la mente? Il grado di felicità in ogni circostanza. Ascoltare il cervello interiore non significa evitare situazioni difficili, spiacevoli, dolorose. No, solo che ci permette di viverle meglio, senza la paura che consuma la nostra energia. SI può vivere tutto, rimamendo forti in se stessi, senza mai perdere totalmente l'equilibrio. Allora, per esempio, si può dire ti voglio bene a qualcuno fregandosene se saremo ricambiati, che tanto quello che importa è amare, molto più che essere amati.
Altro segnale importante è proprio l'energia interiore e fisica che conserviamo. Allora si può riuscire a fare 4.000 metri di dislivello in due giorni e non sentire fatica, mentre a volte una giornata di lavoro ci sfinisce. Stai seguendo te stesso, sei connesso alla vita, la vita di ricambia di tutta l'energia che stai
Un altro segnale è il saper stare nel presente, senza scappare nel passato, in futuri fantasticati, in fughe continue dalla realtà.
La realtà è la cosa più difficile e bella da accettare, ma se la si ascolta con il cervello interiore, è davvero, immensamente sorprendente e luminosa. E per me bello è anche il pendio roccioso che dà le vertigine, la tempesta che squassa, il fragore dei tuoni. La realtà non è quella cosa educolcorata che ci viene spacciata come vita da educazioni, religioni, mode. Spesso non profuma nemmeno di chanel n. 5. Ma non conosce paura, non conosce incertezza, non conoscere rimpianti. Non è poco.

giovedì 22 agosto 2013

nudi e crudi

Esiste una casa di saponi e prodotti per il corpo tutti naturali che vanta come slogan "nudi e crudi", atto a sottolineare la politica ecologista dei fondatori: niente confezioni, se non ridotte al minimo e in materiale riciclato e ricliclabile; i prodotti vengono realizzati in modo da poter essere venduti solidi e sfusi, quindi nudi e crudi.
Eppure quando vai alla cassa, la commessa avvolge le saponette o le tavolette di shampoo  in fogli di carta con sopra stampato il brand dell'azienda, come a dire che nudi e crudi non si può proprio uscire, il solito, antichissimo velo di pudore resta.
Ed è lo stesso velo di pudore che a volte ci impedisce di dire quello che proviamo veramente, abituati come siamo a mettere tutto dentro scatole e contenitori, compresi i sentimenti, le verità, i ti amo o non ti amo.
Sono scatole di paura? Di educazione? Morale, cultura?
Molto, molto tempo fa, c'era una piccola tribù. Il capo di quella tribù un giorno radunò tutti e li fece sedere in cerchio in un prato. Poi chiese a ciascuno di dire a cosa si sentiva simile. A turno, ogni uomo e donna espresse sinceramente con un'immagine, un oggetto, un animale, il ritratto di se stesso, di come si vedeva dentro. Così comparvero alberi senza radici, animali zoppicanti, sandali mai usati, fiori giganteschi, fragili libellule. Ogni immagine parlava di ferite, insicurezze, gioie, certezze, svolte, ma anche giudizi e dialoghi interiori più o meno felici.
Poi il capo scelse l'immagine espressa da un membro del gruppo: era l'immagine di una stella isolata nell'universo, un po' tremula, poco luminosa, appartata, e chiese a tutti che cosa si sentivano di dire a quell'immagine, notate bene, non alla persona che aveva espresso quell'immagine, ma all'immagine stessa. Vi fu silenzio, poi qualcuno cominciò a dire... Le direi di provare ad avvicinarsi... le direi di non aver paura di brillare.. le direi... Suggerimenti, consigli, tutti mirati a cambiare la posizione e lo stato di quella stella lontana.
Il capo infine domandò: Secondo voi, nello spazio infinito dell'universo, fatto di milioni di galassie senza fine, nei milioni di anni da quando l'universo esiste, in tutta la storia della vita, c'è spazio per una stella poco luminosa? E poi continuò a chiedere se c'era spazio per ciascuna delle immagini che erano state espresse, c'è spazio per un albero con un ramo bruciato, c'è spazio per un fiore che sboccia, c'è spazio per una barca nel mare, c'è spazio?
Sì, la risposta è sì. Nasciamo nudi e crudi, con tutto lo spazio della vita e dell'universo attorno. Poi iniziano le regole, le morali, l'educazione affettiva e sociale, il bene e il male, il giusto e sbagliato, il piaccio non piaccio. Tutto deve entrare in una scatola, un contenitore con un'etichetta sopra. Non si può andare in giro nudi e crudi, non si può dire la nuda verità, non si può mettere a nudo i propri sentimenti. E' rischioso, ti farai male, le scatole servono per proteggerti, i veli per coprirti, meglio ancora se quelle scatole le chiudi a chiave, se metti una serratura. Ma da cosa, da chi, dobbiamo proteggerci?
Le scatole tolgono, non creano spazio. Apparentemente fanno ordine, certo, ma provate a mettere un bosco dentro una scatola, un oceano dentro una scatola, la fantasia di un bambino dentro una scatola. E' disordine una foresta? E' confusione un oceano? E' disorganizzazione il pulsare vitale di un bambino?
Vivere di cuore fa sentire vulnerabili a volte, sì, ma è l'unico vero modo con cui voglio muovermi su questa terra. Una terra che è ancora, in certi luoghi, nuda e cruda. E voglio esserlo anch'io.

domenica 11 agosto 2013

keep your love

Sei hai amato, almeno una volta sei stato tradito. Se hai amato, almeno una volta sei stato ferito. Se hai amato, almeno una volta sei stato ingannato. Se hai amato, almeno una volta sei stato abbandonato. Se hai amato, almeno una volta hai provato dolore. Se hai amato, almeno una volta qualcosa ti è stato strappato. Se hai amato, almeno una volta hai visto non con gli occhi, almeno una volta hai capito non con la testa, almeno una volta sei andato oltre, e forse ti sei perso per un po'.
Sei hai amato, tieni te stesso, tieni te stesso. E' quanto di più grande, affascinante, immenso, sconvolgente ci sia.
Keep your head up, keep your love.

lunedì 22 luglio 2013

buchi

I buchi sono un vuoto dentro qualcosa.
C'è il buco di formaggio,
il buco di serratura,
il buco di sole in una nuvola scura.

C'è il buco di ciambella,
il buco di terra,
il buco di calzino,
il buco di cielo quando cade una stella.

Ci sono buchi di topo
e buchi di marmotta,
son buchi per proteggersi
e si chiaman tana.

Ci son buchi nel ghiaccio
e buchi nell'acqua,
buchi sugli alberi
e buchi sulla carta.

Ci sono buchi per scappare,
buchi per guardare,
buchi da aprire,
buchi da riempire.

Di crema o cioccolata,
di sabbia o terra bagnata,
di lacrime talvolta,
se qualcuno amato più non c'è.

Ci sono buchi di parole,
quelle non dette perché manca coraggio.
Ci son buchi nelle azioni,
quando si dice no ai desideri del cuore.

Ci sono buchi di buio:
una ferita, una guerra,
fanno buchi neri dentro l'anima bella.

Ci sono anche buchi di luce
dai quali gli angeli scendono in terra.
Si posano sui bimbi che fan la nanna
fuori o dentro la pancia di una mamma.

Che sia un abbraccio o un girotondo,
il buco più bello è fatto di mani che si incontrano.
È un buco pieno zeppo di ciò abbiamo dentro:
profuma di pane, di domenica mattina,
di vento fresco, neve cristallina,
fa il rumore dei salti e delle capriole,
corre alla velocità delle lacrime di gioia,
e vola per sempre e sempre ancora.

sabato 20 luglio 2013

briciole

Ognuno di noi ha dei piccoli piaceri più o meno segreti. Conosco persone che amano mangiare l'anguria con il pane biscottato o con i grissini, altri che non sanno resistere a un sacchetto di liquirizie o caramelle gommose, chi fa colazione con caffelatte e panino al prosciutto, insomma ognuno di noi ha un piccolo piacere nel quale si coccola per qualche istante, piccole dosi di felicità da scartare all'occorrenza, piaceri che hanno il sapore dell'infanzia per la loro sbaragliante semplicità. Amo tutto questo, amo questo lato bambino negli esseri adulti. Amo vedere il manager che mangia una caramella gelè dopo l'altra, o il medico che si compra le rotelle di liquirizia, o ancora il professionista che ha la scorta personale di cioccolatini. Trovo  tutto ciò meravigliosamente, imperfettamente umano. In genere mi innamoro perdutamente di questo lato in chiunque incontri. E' semplicemente dorabile.
Un mio amico ha una scatola in cui versa di volta in volta i biscotti che compra: frollini al cioccolato, biscotti secchi, ai cereali, con granella di zucchero, ci finisce un po' di tutto. Mi capita una volta ogni tanto di farci colazione, con quella scatola, e quello che amo è il mix di briciole che nell'arco di qualche mese si forma sul fondo della scatola.
Amo affondarci il cucchiaio, fare un po' di archeologia provando a indovinare l'appartenenza dei "reperti" (pezzo di gocciola, pezzo di bucaneve, pezzetto di granturchese...) e poi lasciare che le briciole si sciolgano in bocca. Da sempre le briciole mi danno un sottile piacere, come le croste delle pizze, i bordi delle torte salate, e tutto ciò che sta un po' alla periferia della pietanza. Stranezze che ognuno di noi coltiva con una naturalezza impressionante senza volerne conoscere la ragione (di certo non andremo dallo psicologo per la sindrome da caramella gommosa. Almeno lo spero).
Ma quello che mi incanta della scatola del mio amico è la varietà e la ricchezza del fondo di briciole. Ha un significato tutto speciale. E' come se mi dicesse che la vita, per avere sapore, deve potersi arricchire di tante esperienze, occorre lasciare che le cose si mischino, le buone e le cattive, le belle e le brutte, non tenere  sempre tutto separato. Prendiamo le gocciole ad esempio: non mi piacciono di per sé, son troppo stucchevoli. Ne mangio una e ce la faccio, ma alla seconda comincio già ad avere la nausea. O i biscotti secchi: già dal nome sembra deprimente, no? Non vorresti mai biscotti secchi per tutta la vita, sarebbe una tristezza. Eppure metti tutto insieme, lasci che il tempo spezzi, mescoli, amalgami, e poi scopri che una cucchiaiata di quelle briciole è deliziosa.
Che la vita non sia una scatola di cioccolatini, ma una scatola di biscotti sbriciolati?

venerdì 19 luglio 2013

rialzarsi

Cadere è facile, capita, sopratutto quando si sta imparando.
Ho presente le cadute in bici, ricordo ancora le ginocchia spesso escoriate, ricordo gli ematomi quando ho imparato a pattinare, e poi sciare, arrampicare, tutto quello che ho appreso è stato accompagnato da magnifiche, dolorose cadute. E mi sono rialzata, e ho imparato. Ma allora com'è, cos'è che mi impedisce di rialzarmi altrettanto facilmente da un insuccesso, un errore, un fallimento, una delusione? E' perché le cose sono più complicate? E' perché sono coinvolte altre persone? E' perché non me lo aspettavo?
Forse è solo perché faccio fatica ad accettarlo, e dimentico che sto sempre, sempre, in ogni istante, imparando. Dimentico che con le altre persone c'è molto da imparare, che le relazioni non sono mai scontate, certe, banali. Dimentico che non dipende tutto da me, non è come andare in bici. Non te la prendi con l'asfalto o con il sasso, se cadi. Accetti e correggi il tiro se possibile. Ma con le persone, eh, con la mia stessa razza non è altrettanto semplice e lineare.
Amerò, ne son certa, un giorno questa mia razza umana a cui appartengo, sentirò quel legame di appartenenza che provano le altre specie viventi, e ne sarò grata e felice. Per ora, mi rialzo, perché la vita è talmente bella che fermarsi a terra è solo perdere tempo, ma ancora ho la corazza addosso, ancora mi muovo stando all'erta, vigile nei confronti dei miei simili.
Un lupo non può vivere senza il proprio branco, e anche i lupi solitari non possono vivere se hanno un branco contro.
Allora mi rialzo, perché ho bisogno di voi, cara gente, cara umanità, ho bisogno di voi là fuori. Ma per favore, venitemi incontro, non contro.

giovedì 18 luglio 2013

una storia-tante storie

E' quasi un dato banale, scontato, ovvio. Accade qualcosa a qualcuno, e subito nasce la notizia. Può essere ripetuta con il semplice passaparola della gente, o può finire sulle pagine dei media, può essere un fatto quotidiano, un accadimento fuori dal comune, può essere tante cose, sta di fatto che alla fine ci saranno tante storie, tante versioni dello stesso, unico fatto. La chiamano costruizione della realtà, come a dire che la realtà oggettiva non esiste, dipende dai punti di vista. E così che accade tra i testimoni di una stessa vicenda, ma anche in base al nostro umore, ai nostri pensieri, e così via. La realtà è qualcosa che accade, ma noi poi ne prendiamo solo dei frammenti, e cuciamo e ricuciamo, e voilà, un abito diverso cucito addosso per ciascuno.
A me piacerebbe solo essere brava a raccontarmi storie diverse, visioni diverse di certi momenti della mia vita che mi inchiodano a terra. Si chiama saper superare un trauma. Beh, siceramente, non so come fare. Non è impossibile superare violenza subita, non è impossibile superare tradimento e inganno, non è impossibile smettere di sentirsi colpevoli per non aver saputo reagire, non aver saputo difendersi, non aver saputo evitare e prevedere. Ma la mia mente, quella meravigliosa, selvaggia e instabile creatura che è dentro di me dice no, basta, non ce la faccio. Diciamolo francamente, sono arrabbiata, e  rabbia e paura fanno spesso coppia fissa.
Se dici non ce la faccio davanti a un passaggio in arrampicata, se non sei convinto di poterlo superare, beh, non lo supererai. Non puoi dirti ci provo, non puoi alleggerire quel peso con un ragionevole dubbio, devi essere assolutamente convinto. Solo così funzionerà. Puoi trovare degli stratagemmi alternativi, certo, puoi provare ad azzerare il passaggio, trovando altri appigli, escogitando un'uscita diversa, ma così sai di non aver superato il passaggio chiave, e quel "non ci riesco, è troppo difficile" resterà dentro di te. Puoi tornare altre mille volte su quella via e su quel passaggio, ma se non hai cambiato quel "non ce la faccio" in altro, continuerai a credere che la parete ti stia battendo, ancora e ancora. Puoi allenarti, certo, e questo significa duro lavoro, se cominci tardi, infatti, il corpo impiegherà più tempo a raggiungere un certo livello di prestazione, e lo perderà più in fretta nel momento in cui l'allenamento verrà meno. L'arrampicata è un terribile specchio di come siamo dentro, fisicamente e psicologicamente.
Io sono qui, a cercare di andare avanti azzerando passaggi che non credo di poter superare, perdendomi così il bello di questa vita perché tutto diventa fatica (l'arrampicata è bella ad ogni passaggio, ciò che ami ti diverte). La vita, mi dico, non dovrebbe essere solo fatica, ma io sono davvero spaventata dal male che gli uomini sanno compiere mentre ti guardano con un sorriso, di dicono di volerti bene, ti abbracciano pure.
Una storia, tante storie. Non posso cambiare la mia, posso raccontarmela in modo diverso.
Ma oggi, oggi è dura. Sì, oggi è dura.


mercoledì 10 luglio 2013

le rituel des chats

In una piacevola giornata estiva,  passeggio tra le viuzze colorate di Gourdon, paesino abbarbicato su una collina che da un lato cade a picco nel vuoto, offrendo così una vista a 360° sul panorama circostante, fatto di verdi rilievi che finiscono poi col tuffarsi in mare. E' la Provenza.
Le case di Goudon sono in pietra, una addossata all'altra, una sull'altra, già solo l'architettura di questi edifici è uno spettacolo che dura da millenni; i vicoli offrono allo sguardo mille particolari: fiori sui balconi dipinti di lavanda, insegne in ferro battuto, piastrelle di maiolica dipinte a mano, e poi grovigli di bounganville e rosmarino, camomilla e violette, il tutto in una traquillità magistrale. Persino i turisti sussurrano, non un trillo di cellulare si azzarda a turbare la placida serenità del luogo, e come spesso accade, la lingua ha il suono dei luoghi in cui viene parlata. Qui il francese ha il suono delle cicale, è un cri cri frusciante che invita alla spensieratezza.
Le vetrine dei negozietti sono un capolavoro di colori e profumi, maioliche, lavanda, saponi, tovaglie e tessuti, vini e formaggi locali, lavorazioni artigianali, tutto il succo di questa regione viene messo in mostra con minuzia di particolari.
In un angolo della piazzetta che dà sul belvedere, scorgo la porticina aperta di una cappella, da cui proviene della musica.
Un po' per curiosità, un po' per desiderio di abbandonarmi per un poco alla penombra, entro. Le pareti interne sono in pietra nuda, così come deve essere spoglia di credenti da molto tempo questa piccola cappella. Dalle strette vetrate colorate la luce entra come una folata di vento che smorza l'immobilità dei secoli chiusi tra queste mura, sull'altare manca un fiore fresco, la musica deve provenire da qualche altoparlante posto sul retro.
Sto per tornare alla luce, quando mi accorgo che sull'altare un morbido gattone grigio sta dormendo, mentre sul primo banco si sta compiendo un rituale insolito: un altro gatto, tigrato, sta dando la caccia a un topolino che squittisce. In francese, ovviamente.




P.S. La sera stessa, mentre cenavo in un ristorantino nei pressi della cappellina, è entrato dalla finestra lo stesso gatto grigio. Dopo un giro attorno al mio tavolo per prendersi due coccole, se n'è andato... Mi avrà riconosciuta?








mercoledì 29 maggio 2013

basueros

Avere un cane da portare fuori almeno due volte al giorno offre innumerevoli opportunità. Alcune molto gradevoli - come fare un po' di movimento, godersi il silenzio del quartiere alle prime luci del mattino, prendersi del tempo per rallentare il ritmo - altre del tutto inaspettate.
E così una domenica pomeriggio, grigia e uggiosa, mentre sono con il mio cane, mi accade di notare un anziano signore che rovista nel cassonetto dei rifiuti. Non è la prima volta che mi capita, ma in genere so riconoscere un "barbone", un uomo abituato alla vita di strada. L'uomo che mi stava davanti, che con movimenti lenti rovistava tra i rifiuti, non era un "uomo di strada". Era un anziano del quartiere, aveva appena salutato un suo amico, e ora era chino sul cassonetto con un'espressione indefinibile in volto.
Non riesco a immaginarmi una vita terminare davanti a un cassonetto dei rifiuti. Non ce la faccio. Davanti alla magnificenza di un tramonto, davanti alla ricchezza di un albero carico di fiori e profumi, davanti alla potenza di una cima di una montagna, davanti alle dita piccole di un bimbo che sorride, non riesco a pensare che la vita possa terminare davanti a un cassonetto. Ma sta accadendo ovunque, in Italia, Spagna, Grecia. E la politica risponde obbligando i ristoranti e i locali a tritare gli avanzi di cucina e a chiuderli ermeticamente per arginare il fenomeno, e multa i basueros, coloro che rovistano nella spazzatura, anche con  sanzioni di 500, 750 euro. Dimostrazione che il rifiuto ha un valore commerciale che la politica sa riconoscere.

I nostri cassonetti straripano di quello che chiamiamo rifiuti. Straripano le nostre strade, le nostre città, gli inceneritori. Quando all'alba esco con il mio cane vedo lo spettacolo quotidiano della raccolta differenziata, involucri e bidoni accampati lungo strade e viali, fuori dalle nostre case. Ma di cosa sono pieni? Sono davvero rifuti ciò che gettiamo, o è forse una parte della nostra vita non vissuta fino in fondo? Perché buttare via del cibo significa non averlo mangiato fino in fondo, buttare via delle scarpe significa non averle usate fino in fondo, non aver camminato e corso e ballato fino in fondo, buttare via bottiglie e lattine significa non aver riempito la nostra vita fino all'orlo.

E allora qualcuno può paraddossalmente vivere dei nostri scarti, della nostra vita scartata, della nostra non vissuta fino in fondo, fino all'orlo.

Ed è questo gettare via che ci ha resi poveri, è questo vivere solo in parte che ci ha resi miseri. Prima di gettare qualcosa pensiamoci: l'ho vissuto, usato, goduto veramente fino in fondo? Perché la vita ci sta dicendo che si vive veramente solo al 100%.


martedì 30 aprile 2013

occhi

Cosa succede agli occhi di un essere umano?
Cosa succede nel tempo, a quei due fori da cui entra ed esce tutto di noi?
Cosa accade, per cui a undici, dodici anni, gli occhi dei ragazzi si spengono? Cosa accade per cui un giorno, piano piano, la luce dentro di noi comincia a spegnersi, il fuoco comincia ad affievolirsi? Quale vento, quale tempesta si abbatte sul nostro essere interiore, quale alimentazione viene a mancare alla nostra bellezza ed energia, al nostro movimento naturale, per cui i ragazzi si accasciano sui banchi di scuola, si annidano davanti a un monitor, si radicano davanti a uno schermo televisivo?
Negli occhi dei miei alunni vedo spesso la paura, il giudizio, la resa. Qualcuno tenta un'inutile ribellione rivolta a se stesso e alla vita. Sprecano così bellezza e desiderio, si chiudono come fiori davanti al buio, attendendo una luce che non arriva. Perché la luce è da tenere accesa dentro, non da cercare fuori.
Dove abbiamo perso la nostra luce noi, gli adulti?

Torno a casa e guardo il mio lupo. Ha occhi vivi, caldi, teneri, sempre accoglienti, sempre amanti, sempre in pace, nel presente.
Un animale infatti non è mai crudele, non è mai violento, né lo è una montagna, una slavina, un uragano. La vita richiede di essere aggressivo quando serve, ma mai violento. Aggredire ha un bellissimo significato. Dal latino ad-gradi, significa andare verso, camminare verso, tendere. Indica semplicemente l'azione di andare verso un luogo o una persona. E' movimento che richiede sicuramente energia, tenacia per arrivare fino in fondo, ma non ha nulla a che vedere con la violenza, che implica invece un agire con forza al punto che sia impossibile resistervi, un forzare, un eccedere.
Qualche volta il mio lupo ha paura, sana, vera. Ha paura solo di quello che c'è, non di quello che teniamo stretto nel cuore, nella mente. Non si lascia prendere dalla paura per quello che non c'è, non si lascia abbattere.
Noi invece teniamo ben stretta la paura in noi, la lasciamo abitare nelle nostre viscere a lungo, intere vite talvolta.
Negli occhi tuoi, domani, che cosa vuoi vedere? E in quelli di tuo figlio, di tua moglie, delle persone che ti sono accanto?




mercoledì 13 marzo 2013

nome

Oggi il tempo è indeciso, come l'umore delle persone in questa giornata di Italia in crisi.
Dalla strada giungono pochi rumori, tutto si sta svuotando, le strade, le case, le fabbriche.
Persino le voci. Qui, dentro le mie mura, tutto appare lontano.
Ad un tratto suona il campanello. Uno squillo solo, educato, non come l'addetto dell'acquedotto di stamattina, che si è presentato scampanellando in modo esagitato, senza presentare un documento che lo identificasse, e dicendo soltanto, lettura del contatore. Ormai il potere ci entra in casa senza chiedere permesso, come se già fosse tutta roba sua.
Rispondo al citofono. Un uomo dalla voce calma e gentile si presenta, Buon giorno signora, mi chiamo Sandro, sono disoccupato. Le serve nulla? Nel mio zaino ho delle cose, vendo tutto a due euro.
No, non mi serve niente, dico, ma esco lo stesso. Qualcosa nelle viscere si è stretto.
L'uomo ha occhi chiari e il sorriso dei miti. Buon giorno, mi dice di nuovo.
Scambio con lui poche parole, non so che fare davanti ai suoi occhi gentili di cinquantenne la cui vita gli si è schiantata addosso. Gli lascio un po' di denaro, mi ringrazia e mi chiede, Davvero non vuole niente? No, gli rispondo, lei mi ha già dato molto. Mi saluta e se ne va.
Sì, Sandro mi ha dato moltissimo. Mi ha dato il suo nome.
Il male, l'inganno, fa di tutto per nascondersi, per non farsi vedere, ma il bene si presenta sempre, dice sempre chi è. E lo fa con grazia.
Buon giorno, sono Sandro. Semplice, vulnerabile, come i bambini.
Grazie Sandro, resisti, e conserva il tuo sorriso mite, da agnello. Tra poco è tempo.
  

lunedì 21 gennaio 2013

viaggio

C'è chi è stato in capo al mondo e non ha mai visitato i dintorni della propria città. Conosco persone che han calpestato terra asiatica, africana, americana, ma non han mai messo piede sulle Tre Cime di Lavaredo o sulla Schiara, due ore di strada, praticamente dietro casa. Il viaggio nasce da un istinto irrazionale, talvolta illogico, incontrollato.
Seguiamo rotte incoerenti, da far perdere la bussola a qualsiasi uccello migratore, spinti da desideri che non hanno un perché. Non c'è giusto o sbagliato, c'è solo l'andare.

Spesso seguiamo semplicemente la rotta di chi c'è già stato, il racconto dell'avventura vissuta fa leva sul nostro desiderio di vivere la stessa gioia. Allora andiamo in Australia piuttosto che in Piemonte in cerca del nostro pezzettino di felicità. Perché è lei che cerchiamo in lungo e in largo su questa crosta di terra, piccolo angolino sperduto dell'universo, per tutto il tempo che ci è dato di respirare.

Anche nella vita a volte seguiamo il volo di chi ci sta attorno. Non ho mai visto una rondine migrare in uno stormo di anitre, ma noi uomini facciamo anche questo, seguiamo la rotta esistenziale degli altri, senza chiederci se siamo proprio fatti allo stesso modo.

La meta è certamente la stessa, essere felici, ma occorre uniformare la rotta?

Ultimamene sto viaggiando parecchio, faccio viaggi tra l'umanità, dentro e fuori vari "stormi" umani. Passo del tempo con i ricchi e altrettanto con i poveri, con quelli che hanno un titolo accademico prima del cognome e con quelli che si fanno chiamare semplicemente Gigi o Andrea, trascorro delle serate con i fashion followers e con chi si nasconde dentro il proprio abbigliamento per paura del proprio corpo. Con chi è impegnato e con chi è disimpegnato. Con chi sta seduto triste sopra la sua idea di ordine sociale, e chi si butta a pesce in quel che, che qualcosa di divertente lo pesca di certo.
Sto con chi crede e con chi non crede, con quelli che peccano e con quelli che hanno paura di peccare. Ed è bello, proprio bello.

Sì, l'essere umano è sempre, comunque, bello.
Quando non pensa, ma vive.
Quando non giudica, ma guarda e conosce.
Quando non scarta, ma accoglie.
Quando non resta fermo, ma cammina.
Quando non sa, ma scopre.
Quando non ha paura, ma ama.





martedì 8 gennaio 2013

solitaria solitudine

L'altro giorno, presa da un momento di creatività in cucina, vado a comprare la panna spry. Leggo sulla confezione che sarebbe scaduta dopo quindici giorni dall'apertura del barattolo. Faccio un rapido calcolo, la prospettiva era mangiare panna tutti i giorni, o buttarne via la metà. Non mi piace sprecare cibo, quindi ho scelto di non comprarla. Dal fruttivendolo una cassetta di radicchio mi costerebbe meno, così come il sacchetto formato famiglia di mandarini o di lattuga. Ma ci risiamo, rischio di sprecare buona parte dell'acquisto. Opto per una quantità inferiore, a prezzo maggiore.
La vita non pare essere stata tagliata per i single. E' un vestito che si adatta alla coppia, alla famiglia, al gruppo, alla comunità. Single inoltre sembra fare rima con triste. A Natale mie sorelle (sposate) hanno ricevuto in regalo delle tovagliette da colazione supercolorate, la mia è beige. Quando sei single gli amici sposati ti invitano meno spesso, cercano, per una legge di uniformità, persone simili a loro, quindi coppie. Appartenere alla stessa specie quindi non basta.
Il single deve farsi tutto, non può delegare, dividere, suddividere. Non c'è scambio, non esiste "tu vai a lavare l'auto, io faccio la spesa", non c'è "puoi occuparti tu di... mentre io...?".
Non c'è con chi affrontare insieme le difficoltà, non c'è con chi soppesare una scelta, non sempre c'è con chi condividere la gioia, non esistono frazioni, né decimali. Solo numeri interi. Ci prendiamo l'intero di tutto, e a volte è troppo.
Ma a volte essere single offre incredibili occasioni. Dopo essere fallito il tentativo di trascorrere una vancanza in compagnia, quest'estate ho deciso di farmi un trekking sulle dolomiti da sola, in solitaria solitudine. Non era quello che desideravo, desideravo davvero amici attorno a me, ma son partita lo stesso. Volevo dire ancora una volta a me stessa che potevo, potevo davvero stare bene anche da sola. A farmi compagnia mi aspettavano la roccia, il vento, il sole, gli animali, l'erba e la sera, in rifugio, le parole scambiate con i gestori o con qualche trekker.
E invece sola non sono stata mai. Prima un gruppo di veronesi simpaticissimi, poi una ragazza tedesca con cui mi son ritrovata a condividere cena in rifugio e salita al Sasso Piatto. Solo a chiusura del trekking mi sono ammalata, proprio quando ero di nuovo da sola, a ricordarmi che la vita è sì una via da scalare a due a due, ma non è detto che il compagno sia sempre quello che ci siamo scelti.
E chi arrampica sa che occorre essere flessibili e contare sulle proprie forze. La scelta poi, in qualche modo, ci porterà là dove guardava il nostro desiderio.