mercoledì 5 settembre 2012

la cattedrale 2

(continua dal post: La cattedrale)

E diede la mano a Dominique in segno di presentazione ufficiale. I due si strinsero la mano, poi Dominique scrisse, E come si fa a dimenticarsi delle parole?
Una parola viene dimenticata quando nessuno più la pensa, rispose il vecchio alzando le spalle.
Dominique, E perché le liberi?
Giona, Beh, fa parte del mio programma di salvaguardia delle parole dimenticate. Funziona così: prima costruisco un aquilone, ci scrivo sopra una parola dimenticata e poi lo lascio andare, così se qualcuno lo raccoglierà, vedendo la parola, la pronuncerà e forse riuscirà a ricordarne il significato. Se torna ad essere usata, allora non sarà più una parola dimenticata.
E indicandogli gli scatoloni gli chiese, Vuoi vederne qualcuna?
Dominique fece segno di sì con la testa e si avvicinò a uno scatolone già aperto.
Che ne dici di questa?, chiese il vecchio mostrandogli la parola che aveva appena preso. STUPORE.
Gli occhi del bambino si spalancarono di colpo e il suo viso si illuminò.
Gli piace, pensò il vecchio.
Poi fu Dominique a prendere una parola dallo scatolone. LETIZIA. Tenendola con tutte e due le mani, se l’appoggiò sul volto, chiuse gli occhi e respirò forte.
Anche questa gli piace, notò Giona.
Poi uscirono di colpo le parole BENEDIZIONE, PROTETTO, LODE. Giona vide che Dominique guardava quei vocaboli estasiato. Sembrava che ne conoscesse perfettamente il significato. Eppure erano parole che nessuno pronunciava più da tanto tempo, impossibile che un bambino le potesse conoscere, a meno che...
Il vecchio stette ad osservare il bambino mentre continuava a prendere parole a caso dallo scatolone. Ogni volta sul suo volto si dipingeva un’espressione di meraviglia e gioia inaspettata.
Allora Giona si sedette alla finestra e fece cenno a Dominique di raggiungerlo. Il cielo in quel momento aveva addosso i colori dell’arcobaleno.
Sai che cosa provo ogni volta che vedo un arcobaleno?, chiese il vecchio.
Stupore, disse subito Dominique, come se quella fosse l’unica risposta possibile. E subito si mise le mani davanti alla bocca per la sorpresa. Aveva parlato! Sì, aveva parlato, quella era la sua voce, uscita dritta dritta dalla gola! Era incredibile.
Allora ho ragione!, gridò saltellando dalla gioia Giona. Sì, ho ragione! Tu non sei muto!
Dominique era altrettanto eccitato, ma anche confuso e spaventato. Lui era muto, e quella era la prima volta che riusciva a parlare.
La cosa gli faceva un effetto davvero strano.
Provò ancora, questa volta lentamente, scandendo bene le sillabe. Stu-po-re. Sì, ci era riuscito di nuovo.
Provane un’altra, lo incoraggiò il vecchio.
Gra-gra-gratitudine, disse a voce alta Dominique, ancora stupito.
Sì! Molto bene!, lo incitò Giona.
Lodeprotettobenedizione, disse tutto d’un fiato il bambino.
Più forte, fece Giona.
LODEPROTETTOBENEDIZIONE, gridò Dominique euforico, mettendosi a correre e saltellare per la stanza insieme al vecchio.
Poi di colpo si fermò e con gli occhi ancora sgranati dalla meraviglia guardò il vecchio in cerca di una spiegazione. Lui era sempre stato muto, come era possibile che ora riuscisse a parlare fluidamente, senza alcun impedimento?
Giona allora lo fece sedere per fargli riprendere fiato, gli accarezzò la fronte e gli chiese, Lo sai da dove vengono le parole?
Dominique indicò la porta, come a dire, Da qui, dalla fabbrica.
Giona riprese, Oh, qui si fabbricano le parole che servono per parlare con la testa, ma c’è un luogo, segretissimo e nascosto, dove le parole non vengono fabbricate, ma nascono e vivono per sempre. Sono parole diverse, che solo un orecchio molto attento può riuscire ad ascoltare, perché non sono parole per la mente, ma per lo spirito. E tu le conosci!
Dominique tornò a prendere carta e matita, Tu hai preso queste parole da lì, dal luogo segretissimo?
Giona fece cenno di sì col capo, poi riprese a parlare. Questi scatoloni contengono solo le parole che io ho saputo ascoltare, ma in quel luogo segretissimo e nascosto ce ne sono molte altre. Quasi nessuno pronuncia più queste parole, perché sono tutti troppo presi a fare dell’altro. Così sono pochissimi coloro che ancora riescono ad accedere a quel luogo segretissimo, dove ci sono i pensieri veri e i movimenti per far nascere le parole vive.
Dominique corrugò la fronte e scrisse, Pensieri veri? Movimenti? Cosa vuoi dire?
Giona spiegò, Ci vuole un pensiero vero per far nascere una parola speciale e ci vuole un movimento per farla vivere. È come per l’aquilone, ci vuole una mano per costruirlo, ma non è sufficiente, serve il vento per farlo volare.
Dominique fece un cenno col capo, come a dire, Ho capito.
Giona continuò, Tu non sei muto Dominique, ti mancano solo le parole, perché quelle della fabbrica non vanno bene per esprimere quello che ascolti dentro di te.
Dominique lo guardò confuso.
Non mi credi? Prova a leggere questa allora. Giona scrisse una parola su un pezzo di carta.
Dominique guardò la parola a lungo. Poi la restituì in silenzio al vecchio.
POSSESSO non è una parola che riesci a sentire dentro di te, vero?, chiese Giona, appallottolando il pezzo di carta e buttandolo in un cestino. Dominique fece cenno di no con il capo.
Già, me lo immaginavo, rispose Giona. Ma questa sono sicuro che riesci a pronunciarla... E pescò dallo scatolone un’altra parola.
DONO, disse serenamente Dominique, come se la voce gli fosse uscita da sola, senza nemmeno doverci pensare.
Giona sorrise.
Dominique rimase in silenzio per un poco. Pensava a cose lontane e intanto scarabocchiava con la matita su un foglio. Erano disegni senza capo né coda, segni indecifrabili privi di forma o espressione. Molti bambini disegnano così, e non per imperizia o arte acerba, ma perché il loro sguardo va e viene come un’onda, non ha confini, perciò non sanno mettere i contorni alle cose.
Poi prese un foglio pulito e ci scrisse sopra a lettere grandi, maiuscole, in bell’ordine. La grafia sostituiva così il tono della voce che gli mancava per dare serietà al discorso.
Insegnami la strada, fu la richiesta, scritta, formale, solenne. E non era cosa da poco, perché chiedere la strada è sempre un atto di abbandono e di coraggio insieme. Ammettere lo smarrimento, chiedere aiuto, fidarsi, non è una formula matematica, che torna sempre, ma tuffo nel vuoto, luogo turbolento, senza appigli né peso. Si deve innanzitutto lasciare il certo per l’incerto e già qui è difficile, l’uomo preferisce qualsiasi cosa, persino la sofferenza, all’ignoto. Poi va accettata indicazione, che è atto di fiducia in se stessi e nell’altro, perché se anche la direzione per la meta è certa, spesso dubitiamo di poterla raggiungere.
Ma Dominique sebbene muto, dentro aveva le sue parole, forti e spensierate da bambino, per cui non mise punti di domanda alla sua richiesta. Non aveva dubbi, si fidava.
Giona si stropicciò i capelli con le mani, pensieroso. Poi si mise a rovistare negli scatoloni che erano ancora chiusi. Dominique lo guardava paziente. Il vecchio stava cercando le parole giuste, prendeva dunque con altrettanta serietà il compito affidatogli. Se lo avesse scritto, avrebbe usato lo stampatello, preciso, ordinato, DAMMI TEMPO, È UNA COSA SERIA.
Eccola, disse infine, sollevando la testa e guardando soddisfatto la parola che teneva in mano.
Poi si rivolse a Dominique, La verità, ragazzo, è che il luogo segretissimo e nascosto è diverso per ognuno di noi. Quindi non posso indicarti la strada, perché il mio luogo è unico e vale solo per me. Però posso aiutarti a trovare il tuo.
E a quel punto gli diede la parola che aveva preso dallo scatolone.
Poi disse, Prendi, portala con te, funzionerà come una calamita. Quando sarai vicino al luogo segretissimo e nascosto, lei comincerà a vibrare, perché le parole vive sono attratte dalla sorgente. Allora seguila fino a quando non sarai arrivato.
Dominique prese la parola dalle mani del vecchio e la tenne tra le dita sussurrandone il nome.
Giona lo zittì immediatamente. No, chiamala quando sarai da solo, in un luogo appartato, allora lei ti riconoscerà e ti diventerà amica.
Poi gli diede un pezzo di spago e disse, Tieni questo, potrebbe servirti. E ricorda, quando sarai arrivato, non aver paura, ma ascolta. Se avrai pazienza, andrà tutto bene.
Dominique prese lo spago, poi abbracciò Giona e uscì. Fuori era tornato il sereno. Decise di andare subito a cercare il suo luogo segretissimo e nascosto. Aveva già otto anni e non c’era ancora mai stato! Per prima cosa pensò da dove avrebbe potuto cominciare la ricerca. Il luogo segretissimo e nascosto poteva essere ovunque, gli aveva detto Giona, perché dipendeva da quello che gli piaceva. Dominique pensò ai posti dove gli piaceva andare e per prima cosa andò al parco. Ma la parola non sembrò affatto attratta da quel posto di alberi e giochi. Poi passò davanti al negozio di giocattoli, alla piscina, al reparto dolci del supermercato, ma la parola non vibrò nemmeno per un momento. Il vecchio gli aveva detto che non sarebbe stato facile, e Dominique non si scoraggiò. Sono posti troppo rumorosi, si disse, non riuscirei ad ascoltare nulla, meglio cercare qualcosa di più tranquillo.
Allora andò in una chiesa, pensando che la religione l’avrebbe aiutato, poi in un museo, pensando che l’arte l’avrebbe aiutato, andò infine in una biblioteca, pensando che la cultura l’avrebbe aiutato, ma in nessuno di questi luoghi la parola si mise a vibrare.
Era ormai sera quando Dominique si sedette su una panchina. Non gli erano rimasti molti luoghi in città dove andare a cercare. Chiuse gli occhi e sussurrò la parola che gli aveva dato Giona. Aveva un bel suono. Capì in quell’istante che la città non andava bene, il suo luogo segretissimo non poteva essere là dove lui non riusciva a parlare. Doveva cercare altrove, ma dove?
Si sa che le parole con cui parliamo dentro a noi stessi sono molto più potenti di quelle che pronunciamo a voce alta, esse infatti non si disperdono al vento ma restano nella corteccia del nostro corpo e mettono radici. E infatti Dominique disse a se stesso, risoluto come solo i bambini sanno essere, Andrò verso il tramonto.
E alzatosi, prese a camminare verso il sole.
Camminò a lungo, perché il sole ha il vizio di andare sempre oltre. Ma a Dominique piaceva andare verso tutto quel rosso e quel porpora, gli metteva allegria. Prese così una stradina che si snodava tra le ultime case della città. Una staccionata tracciava i confini con la campagna circostante, e Dominique la superò immergendosi sempre più nei rumori e bisbigli dei prati in estate. Non si ricordava di essere mai stato da quelle parti, ma il sole era lì, dritto davanti a lui, perciò continuò a camminare.
Poi, all’improvviso, sentì che nella tasca dei pantaloni la parola si stava muovendo.
Allora la prese in mano con cautela e la guardò. Sfarfallava come una libellula. Per non perderla, la legò ad una estremità dello spago che gli aveva dato il vecchio Giona, poi aprì la mano e la lasciò volare, tenendola per l’altro capo della corda come fosse un aquilone.
La stradina cominciò a salire tra prati d’erba alta. Su tutto passava un vento, leggero e fresco, spandendo i profumi dell’estate.
Dominique attraversò così un grande prato, poi un boschetto e un piccolo torrente, sempre inseguendo la sua parola. E vide, a un certo punto, nella penombra degli alberi, tronchi che non sembravano semplici tronchi, e rami che non sembravano semplici rami. Avevano una forma strana, come se qualcuno li avesse piantati in ordine per formare colonne. Gli alberi così disposti andavano a formare navate e si chiudevano in archi a sesto acuto che si stagliavano in cielo.
Incuriosito, Dominique si avvicinò e guardò con più attenzione. Davanti a lui si ergeva una cattedrale, e non fatta di assi di legno e mattoni, ma di alberi vivi, coi rami coperti di foglie e la linfa nelle radici, lastricata d’erba invece di marmo e con il cielo a fare da volta affrescata. Era uno spettacolo straordinario.
Non aveva dubbi, era arrivato al suo luogo segretissimo e nascosto. Ed era davvero un gran bel luogo, notò compiaciuto. Nessun architetto avrebbe mai potuto costruire qualcosa di altrettanto bello, solenne e accogliente.
Camminando tra le colonne d’albero, sotto l’arco della luna che cominciava ad affiorare, Dominique ammirava stupito quella costruzione naturale e ascoltava il vento che suonava una musica senza strumenti, fatta di carezze e bisbigli, sussurrata in punta di labbra alle foglie. Si sentì protetto e al sicuro.
Ad un certo punto si accorse che al centro della navata centrale c’era un tronco scavato a sedia, opera di chissà quale mano. Era consumato dai tarli, come se fosse rimasto lì a lungo, sotto qualsiasi tempo e qualsiasi sole. Sembrava il trono per un re semplice.
Dominique si avvicinò e notò con sorpresa che sul trono c’era un biglietto con su scritto “Siediti”. Proprio in quell’istante, la parola che aveva tenuto legata fino a quel momento, si avvicinò al trono ed esplose in un piccolo fiocco di luce. Dominique era molto stupito. Come poteva essere che quel trono fosse lì per lui? Si guardò attorno, per vedere se c’era qualcuno, ma il luogo era deserto. Giona gli aveva detto che il luogo segretissimo e nascosto è unico per ogni persona e lui non aveva dubbi, quello era il suo. Allora, facendo un bel respiro carico di desideri, si sedette sul tronco tagliato a trono. Sapeva di resina e di parole belle, quelle che lui stava cercando da sempre.
Resto lì seduto ad ascoltare, come gli aveva detto il vecchio Giona, familiarizzando con i rumori di quel luogo fino a quando non cominciò a sentirne i pensieri. Stavano nascosti tra le foglie e sotto le radici degli alberi e bisbigliavano, come fanno i bambini quando confidano segreti.
Il vento cominciò a sollevarli verso l’alto, oltre la volta della cattedrale. Li faceva girare intorno e poi ricadere giù, a volte veloce a volte piano. Creava i movimenti, come aveva detto Giona, per dar vita alle parole.
Dominique si domandò quanto tempo ci sarebbe voluto. Chissà se per nascere le parole erano come i girini che spuntavano in una sera o se impiegavano lo stesso tempo dei gatti o dei bambini. L’idea di aspettare così tanto gli fece venire il solletico. Aveva un gran voglia di rincorrere i pensieri invece di star fermo lì seduto, ma ricordandosi della parole del vecchio, attese paziente che le parole nascessero.
Lì non era come in fabbrica, dove ogni giorno si costruivano parole da usare e consumare in fretta. Le parole segrete e nascoste erano grandi, eterne, per cui ci voleva più tempo perché nascessero. Servivano pensieri forti come le querce, e tanto, tanto vento per sollevarli e muoverli.
Dominique attese a lungo, fino a quando l’estate se ne andò, cielo si fece pallido e i rami si spogliarono lasciando cadere a terra le foglie. Allora il vento sollevò i pensieri molto in alto, li addensò in nubi e tutto si fece freddo e silenzioso.
Poi, piano piano, dal cielo cominciarono a cadere piccoli fiocchi bianchi. Erano le parole bambine.
Dominique aprì le mani per accoglierle. Presto tutto fu bianco.
Quel giorno Dominique cantò con tutta la sua voce il suo grazie. Quel giorno era Natale.

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